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L’AZIONE DI INGIUSTIFICATO ARRICCHIMENTO. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza n. 33954 del 05.12.2023

Con la recentissima Sentenza n. 33954 del 05.12.2023 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito e definito l’ambito di applicazione dell’azione di ingiustificato arricchimento prevista dall’art. 2041 c.c..

Sui limiti di ammissibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento e sull’ambito di applicazione della regola della sussidiarietà prevista dall’art. 2042 c.c. sono sorte numerose incertezze e dubbi, già esaminati nell’articolo del 04.04.2023, cui si rimanda, tali da giustificare la rimessione della questione al Primo Presidente della Suprema Corte (Corte Cass, Sez. III, Ordinanza interlocutoria n. 5222 del 20.02.2023)[1].

Il caso

La vicenda alla base della pronuncia n. 33954/2023della Corte di Cassazione trae origine dalla controversia insorta tra una Società finanziaria immobiliare ed un’Amministrazione comunale.

La predetta Società dichiarava di essere proprietaria di un terreno che, al momento dell’acquisto, aveva natura edificabile e di aver, quindi, presentato un piano di lottizzazione finalizzato al rilascio della concessione edilizia.

Nelle more, la nuova Amministrazione comunale aveva provveduto alla modificazione del piano regolatore e del regolamento edilizio, con variazione della destinazione del terreno da residenziale ad agricolo e conseguente perdita di valore dello stesso.

La Società aveva rinunciato a muovere osservazioni, sostenendo anche le spese per l’interramento dei cavi di alta tensione, sul presupposto delle rassicurazioni ricevute dal Sindaco pro tempore circa il ripristino della destinazione edificatoria del terreno.

Il Comune, tuttavia, disattendeva la promessa del cambio di destinazione urbanistica.

La Società, pertanto, agiva in giudizio per far valere la responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. dell’Ente e, in subordine, per far riconoscere l’arricchimento ingiustificato del Comune per le spese da essa sostenute.

Il Giudice di prime cure dichiarava infondata la domanda relativa alla responsabilità precontrattuale per difetto di prova, mentre riteneva ammissibile la domanda relativa all’ingiustificato arricchimento.

La Corte d’Appello, invece, riformava la Sentenza del Tribunale, dichiarando inammissibile la domanda di ingiustificato arricchimento tenuto conto del rigetto della domanda principale e dell’operatività della regola della sussidiarietà ai sensi dell’art. 2042 c.c..

La decisone della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la Sentenza n. 33954/2023, ha chiarito quando è possibile proporre l’azione di ingiustificato arricchimento, partendo proprio dal dettato normativo, ossia dall’art. 2042 c.c., che definisce il carattere sussidiario della predetta azione: infatti, “l’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito”.

Nello specifico, la Suprema Corte ha precisato come non possa accedersi alla soluzione, sostenuta da parte della giurisprudenza, che reputa sempre ammissibile l’azione di ingiustificato arricchimento allorché la diversa azione proponibile, ossia la c.d. azione principale, sia fondata su clausole di carattere generale (come le azioni ex artt. 2043 e 1337 c.c.), al fine di evitare non solo fenomeni di concorso integrativo o addirittura alternativo tra le azioni esperibili ma anche elusioni del dettato normativo. Pertanto, la Corte di Cassazione ha ribadito che resta precluso l’esercizio dell’azione di ingiustificato arricchimento ove quella suscettibile di proposizione in via principale non sia stata coltivata o sia andata persa per un comportamento imputabile all’impoverito, come nelle ipotesi (di più frequente applicazione) di prescrizione o di decadenza.

La Corte di Cassazione, inoltre, ribadendo l’impossibilità di agire ex art. 2041 c.c. nel caso in cui la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico, ha dettato direttive ben precise al fine di consentire ai Giudici di merito una ponderata valutazione della ricorrenza o meno della sussidiarietà dell’azione di ingiustificato arricchimento per le molteplici ipotesi che potrebbero verificarsi.

Infatti, nel caso di azione fondata su titolo contrattuale, ancorché il riscontro della nullità del titolo porti ad una pronuncia di rigetto nel merito della domanda fondata sullo stesso, occorre distinguere tra le ipotesi in cui il rigetto della domanda principale derivi dal riconoscimento della carenza ab origine dei presupposti fondanti la stessa, da quelli in cui derivi dall’inerzia dell’impoverito ovvero dal mancato assolvimento di qualche onere cui la legge subordina la difesa di un suo interesse.

Nella prima ipotesi, il rigetto per accertamento della carenza ab origine del titolo fondante la domanda principale comporta che quello che appariva essere un concorso da risolvere ex art. 2042 c.c. in favore della domanda principale sia, invece, un concorso solo apparente, con conseguente proponibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento. Qualora, invece, il rigetto sia derivato dalla mancata prova da parte del contraente del danno derivante dall’altrui condotta inadempiente, la domanda di arricchimento resta preclusa in ragione della clausola di sussidiarietà contenuta nell’art. 2042 c.c..

Con il recente pronunciamento la Suprema Corte ha, quindi, affermato il seguente principio di diritto: “Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà, posto dall’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo. Viceversa resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico”.

Pertanto, in relazione al caso di specie, dal momento che la domanda di responsabilità precontrattuale exart. 1337 c.c. era stata respinta per mancanza ab origine del titolo fondante, la Corte di Cassazione, alla luce dei principi esposti, ritenendo proponibile l’azione di ingiustificato arricchimento ha cassato con rinvio, per nuovo esame della decisione, alla Corte d’Appello, in diversa composizione.

CONTRATTO DI APPALTO. LA NATURA DELLA RESPONSABILITA’ PER ROVINA DI EDIFICIO: Corte di Cassazione, Sentenza n. 31301/2023

Con la recentissima Sentenza n. 31301 del 10.11.2023 la Corte di Cassazione chiarisce il rapporto che sussiste, in caso di rovina di edificio, tra la responsabilità extracontrattuale e quella tipica dell’appaltato reex art. 1669 c.c..

La responsabilità dell’appaltatore per “rovina e difetti di cose immobili” ex art. 1669 c.c..

 In generale, l’appaltatore, senza bisogno di alcuna specifica pattuizione, è tenuto a garantire il committente per eventuali difformità o vizi dell’opera.

Infatti, ai sensi dell’art. 1668 c.c.il committente – previo tempestivo esercizio dell’azione entro 2 anni dalla consegna (art. 1667, comma 3, c.c.) – ha diritto di pretendere che l’appaltatore elimini a sue spese le difformità o i vizi, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, “salvo il risarcimento del danno”.

Se, però, le difformità o i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente ha diritto di ottenere la risoluzione del contratto d’appalto(art. 1668, comma 2, c.c.).

La garanzia per difetti dell’opera apprestata in favore del committente segue il diverso regime prescritto dall’art. 1669 c.c. qualora l’appalto riguardi la costruzione di edifici o altre cose immobili destinate a lunga durata,

Nello specifico, il citato articolo prescrive che “[…] se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Il diritto del committente si prescrive in un anno”.

Per costante giurisprudenza, la scoperta (fatto dal quale decorre il termine per proporre tempestiva denuncia dei vizi che hanno determinato o potrebbero determinare la rovina dell’immobile) “si intende verificata quando il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza obiettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera (spesso attraverso una relazione di consulenza tecnica), non essendo sufficiente […] la constatazione di segni esteriori di danno o di pericolo (ovvero manifestazioni di scarsa rilevanza o semplici sospetti), salvo che si tratti di manifestazioni indubbie come cadute o rovine estese” (testualmente, Cass. Civ., Ordinanza n. 13707/2023; ex multis, Cass. Civ., Sentenza n. 4249/2010).

Nonostante la collocazione sistematica dell’articolo in esame (nell’ambito della disciplina del contratto d’appalto), il bene giuridico alla cui tutela tende la disciplina dettata dall’art. 1669 c.c. trascende il rapporto negoziale in base al quale l’immobile è pervenuto nella sfera di dominio di un soggetto diverso dal costruttore. Quindi, l’azione di responsabilità è proponibile nei confronti i) del costruttore (a carico del quale vige una presunzione iuris tantum di responsabilità), ii) del venditore (non solo quando abbia provveduto alla costruzione con gestione diretta di uomini e mezzi, ma anche quando abbia comunque mantenuto il potere di impartire direttive sullo svolgimento dell’attività altrui; ex multis, Cass. Civ., Sentenza n. 18891/2017), iii) del progettista (quando la rovina dell’edificio dipenda da errori di progettazione; ex multis, Cass. Civ., Sentenza n. 8016/2012), e iv) del direttore dei lavori (ex multis, Cass. Civ., Sentenza n. 13158/2002).

 Il caso

Nella Sentenza n. 31301 del 10.11.2023la Suprema Corte chiarisce definitivamente il rapporto tra le responsabilità previste dagli artt. 1669 c.c. (responsabilità per rovina e difetti di cose immobili) e 2043 c.c. (responsabilità per fatto illecito).

Nella fattispecie, gli attori (proprietari dell’immobile) hanno convenuto in giudizio la Società costruttrice chiedendo l’accertamento della responsabilità di quest’ultima ai sensi dell’articolo specificamente previsto per il contratto d’appalto, e, solo dopo l’accertamento dell’intervenuta decadenza e della maturata prescrizione dell’azione ex art. 1669 c.c., invocando l’azione generale di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c..

La Suprema Corte ha cassato la pronuncia emessa dalla Corte territoriale (favorevole all’alternatività delle azioni), ed ha sancito i seguenti principi di diritto.

  • Tra le azioni in esame sussiste un rapporto di specialità, e, in particolare, la responsabilità aquiliana (genus) presuppone a carico del soggetto danneggiato la prova di tutti gli elementi richiesti dall’art. 2043 c.c. (fatto illecito, dopo o colpa, danno ingiusto, e nesso di causalità), mentre per l’azione ex 1669 c.c. (species) opera il regime di presunzione della responsabilità del costruttore.
  • In generale, “è ammissibile la coesistenza di due azioni diversificate quanto a presupposti applicativi e regime probatorio, sicché deve riconoscersi alla parte la facoltà di agire in giudizio non avvalendosi delle facilitazioni probatorie stabilite per una sola di esse”.
  • Tuttavia, secondo il Collegio, l’esercizio dell’azione generale prevista dall’art. 2043 c.c. spetta al soggetto danneggiato “solo allorché, al momento in cui l’avente diritto può far valere la propria pretesa, i presupposti oggettivi [e soggettivi] delineati dalla norma speciale non sussistano: a) o per la natura dell’immobile interessato (diverso dagli edifici o da altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata); b) o per la natura delle deficienze riscontrate (diverse dalla rovina, in tutto o in parte, dall’evidente pericolo di rovina o dal gravi difetti); c) o per la natura della cause acclarate (diverse dal vizio del suolo o dalle carenze della costruzione); d) o per l’insorgenza della carenza costruttiva dopo il decorso del termine di dieci anni dal compimento dell’opera”.
  • Infatti, l’applicazione dell’art. 2043 c.c. può essere invocata soltanto ove non ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi dell’azione di responsabilità previsti per l’appunto dall’art. 1669 c.c., ma non al fine di superare i limiti temporali entro cui l’ordinamento positivo circoscrive il suo campo applicativo, ovvero senza poter “aggirare” il peculiare regime di prescrizione e decadenza che caratterizza l’azione speciale in ordine ai medesimi fatti contestati.

In definitiva, non è configurabile a carico del costruttore, per i medesimi eventi, una concorrente responsabilità per fatto illecito, rispetto alla quale la prescrizione dell’art. 1669 c.c. “si pone in funzione chiaramente derogatoria”.

IL C.D. “PRELIMINARE DI PRELIMINARE” E LA NOZIONE DI “AFFARE CONCLUSO”: Corte di Cassazione, Sez. II, Sentenza n. 31431/2023

Con la recentissima Sentenza n. 31431 del 13 novembre 2023 la Corte di Cassazione affronta il tema dell’idoneità del c.d. “preliminare di preliminare” a fondare il diritto alla provvigione (ex art. 1755 c.c.)  in capo al mediatore che abbia messo in contatto le parti.

Il contratto preliminare ed il c.d. “preliminare di preliminare”

Il contratto preliminare è il negozio giuridico con cui le parti si obbligano a stipulare un successivo contratto definitivo, del quale deve essere già determinato il contenuto essenziale, pena l’invalidità per indeterminatezza.

In caso di inadempimento del preliminare, oltre all’integrazione di responsabilità contrattuale cui consegue la condanna al risarcimento dei danni, la Legge pone a disposizione della parte che vi ha interesse la facoltà di ottenere una sentenza costitutiva che produce gli effetti che avrebbe prodotto il contratto definitivo (esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto ai sensi dell’art. 2932 c.c.).

Una questione particolarmente discussa in giurisprudenza attiene all’ammissibilità di un contratto preliminare con il quale le parti si vincolano a perfezionare non un contratto definitivo, bensì – per ragioni che possono nascere dalla natura complessa della trattativa – un altro contratto preliminare, al quale poi dovrebbe seguire la stipulazione del contratto definitivo.

Con la Sentenza n. 4628/2015, le Sezioni Unite hanno finalmente sancito la validità e l’efficacia del contratto preliminare di preliminare, a condizione che il secondo contratto non sia meramente ripetitivo del primo, ma realizzi un interesse concreto delle parti meritevole di tutela.

In particolare, rientra nella nozione in esame il contratto che è caratterizzato da “una puntuazione vincolante sui profili in ordine ai quali l’accordo è irrevocabilmente raggiunto, [mentre restano] da concordare secondo buona fede ulteriori punti”.

La Suprema Corte ha inoltre statuito che “La violazione [del c.d. “preliminare di preliminare”], in quanto contraria a buona fede, è idonea a fondare, per la mancata conclusione del contratto stipulando, una responsabilità contrattuale da inadempimento di una obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale”.

Quindi, a mero titolo esemplificativo, il soggetto che non adempie alle disposizioni vincolanti contenute nelle lettere di intenti (LOI) ovvero nei c.d.memorandum of understanding (MOU) – documenti preparatori che rilevano nella fase di negoziazione contrattuale – oppure interrompe improvvisamente le trattative, è soggetto al predetto regime di responsabilità.

Il quadro giurisprudenziale

Sulla base della citata pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte, la giurisprudenza, inizialmente, ha affermato che la stipulazione di un contratto preliminare di preliminare è idonea a costituire il presupposto della “conclusione dell’affare” previsto dall’art. 1755 c.c., e, di conseguenza, a fondare il diritto del mediatore a conseguire la provvigione delle parti contraenti.

In particolare, poiché l’affare è inteso “come qualsiasi operazione di natura economica generatrice di un rapporto obbligatorio tra le parti”, allora, “anche una proposta di acquisto integrante “preliminare di preliminare” può far sorgere il diritto alla provvigione” (testualmente, Cass. Civ., Sentenza n. 923/2017) […]

Tuttavia, a far data dalla Sentenza n. 30083 del 19.11.2019, il predetto orientamento è stato riformato.

Infatti, posto che i)la conclusione dell’affare rileva solamente quando tra le parti “si sia costituito un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire per la esecuzione specifica del negozio, nelle forme di cui all’art. 2932 c.c.”, e che ii) il c.d. “preliminare di preliminare” costituisce  “un contratto ad effetti esclusivamente obbligatori non assistito dall’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. […] ma soltanto [idoneo a fondare] la responsabilità contrattuale della parte inadempiente per il risarcimento dell’autonomo danno […]” , la conclusione di un accordo a contenuto essenzialmente preparatorio, secondo la Suprema Corte, non è idoneo a vincolare le parti né ad assicurare una tutela specifica alla parte non inadempiente, e, quindi, non fa sorgere in capo al mediatore (eventualmente intervenuto per la sottoscrizione del negozio giuridico) il diritto alla provvigione ai sensi dell’art. 1755 c.c. (testualmente, Cass. Civ., Sentenza n. 30083/2019; ex multis, Cass. Civ., Ordinanze nn. 8879/2022, 7781/2020, 39377/2021).

Il caso

Nella Sentenza n. 31431 del 13.11.2023la Suprema Corte effettua un’interessante ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale sul tema delle conseguenze giuridiche che derivano dalla stipulazione di un contratto preliminare di preliminare, partendo dall’esame del principio di diritto enunciato nella Sentenza delle Sezioni Unite n. 4628/2015.

La Corte, innanzitutto, rileva che le Sezioni Unite hanno individuato la causa del c.d. “preliminare di preliminare” nell’esigenze delle parti, in particolari e complesse trattative, di “riservare il consenso vincolante […] a verifiche che sono da valutare soggettivamente”.

In tale prospettiva, il contratto in esame costituisce un obbligo di contrattare, la cui violazione è sanzionabile come responsabilità da inadempimento di un’obbligazione di natura contrattuale, e non, invece, un obbligo di contrarre, come invece avviene nel caso di stipulazione di un contratto preliminare vero e proprio.

Quindi, “Dal “preliminare di preliminare” […] viene a scaturire il solo vincolo a non interrompere, violando la clausola di buona fede e correttezza, l’ulteriore trattativa finalizzata a pervenire alla definizione completa dell’operazione negoziale, pena l’insorgere di un obbligo meramente risarcitorio per violazione di un’obbligazione riconducibile alla terza delle categorie elencate dall’art. 1173 c.c.[1].

Il Collegio, dunque, censura l’orientamento giurisprudenziale che attribuisce alla stipulazione del contratto preliminare di preliminare l’idoneità a fondare il diritto alla provvigione in capo al mediatore, in quanto basato sull’erroneo convincimento che la decisione delle Sezioni Unite abbia equiparato il contratto in esame ad un contratto pienamente vincolante e sottoposto, in caso di inadempimento, ad esecuzione coattiva.

In definitiva, la Suprema Corte ha cassato la Sentenza della Corte territoriale emessa nell’ambito di una mediazione immobiliare, affermando il seguente principio di diritto: “il c.d. “preliminare di preliminare”, pur essendo vincolo valido ed efficace se rispondente ad un interesse meritevole di tutela delle parti, risulta idoneo unicamente a regolare le successive articolazioni del procedimento formativo dell’affare, senza abilitare le parti medesime ad agire per la esecuzione specifica del negozio, nelle forme di cui all’art. 2932 c.c., ovvero per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del risultato utile del negozio programmato e, conseguentemente, non viene a costituire un “affare” idoneo, ex artt. 1754 e 1755 c.c., a fondare il diritto alla provvigione in capo al mediatore che abbia messo in contatto le parti medesime.

[1] L’art. 1173 c.c., rubricato “Fonti delle obbligazioni”, dispone che “Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.

L’INOPPONIBILITA’ DELLA SERVITU’ NON TRASCRITTA. Corte di Cassazione, Sez. II, Sent. n. 28694 del 16.10.2023

Con la recentissima Sentenza n. 28694 del 16.10.2023 la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato il tema dell’inopponibilità della servitù non trascritta in una specifica e separata nota, distinta da quella relativa alla compravendita.

Il quadro normativo

La servitù è il “peso” imposto sopra un fondo (c.d. fondo servente) per l’utilità di un altro fondo (c.d. fondo dominante) appartenente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.).

Essenziale è quindi la relazione (c.d. rapporto di servizio) che intercorre tra i due fondi, per cui il fondo dominante si avvantaggia della limitazione che subisce quello servente.

L’utilità può anche consistere nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante. Ne discende che il contenuto del diritto di servitù può essere il più vario: accanto alle c.d. servitù tipiche, il cui contenuto è previsto e regolamentato dal Codice Civile, sono altresì ammesse le c.d. servitù atipiche che, nonostante non appartengano ad alcuno dei modelli legali, possono tuttavia essere liberamente costituite purché finalizzate all’utilità del fondo dominante.

Per quanto riguarda, invece, i principi fondamentali in materia di servitù, questi possono essere così riassunti:

  • servitus in faciendo consistere nequit: la servitù può imporre al proprietario del fondo servente solo un dovere negativo di non facere o di pati;
  • nemini res sua servit: la servitù presuppone che i fondi appartengano a proprietari diversi;
  • praedia vicina esse debent: i fondi devono trovarsi in una situazione tale che il fondo servente, possa arrecare utilità al fondo dominate. Ad ogni modo, lavicinitas non deve intendersi in senso assoluto, ma relativo al contenuto della servitù.

La costituzione delle servitù può avvenire in attuazione di un obbligo di legge (c.d. servitù coattive), per usucapione, per destinazione del buon padre di famiglia, e per volontà dell’uomo (c.d. servitù volontarie).

Al riguardo occorre evidenziare che i contratti che costituiscono o modificano le servitù prediali, ai sensi dell’art. 2643, comma 1, n. 4) c.c., sono soggetti a trascrizione, ossia il mezzo di pubblicità relativo agli immobili ed ai beni mobili registrati, previsto dagli artt. 2643 e ss. c.c., che mira ad assicurare la conoscibilità, mediante annotazione in appositi registri pubblici, delle vicende relative ai suddetti beni ed a dirimere eventuali contrasti insorti in ordine alla loro titolarità. La trascrizione ha efficacia dichiarativa: rende opponibili a terzi gli atti trascritti.

Il caso

La vicenda alla base della pronuncia n. 28694/2023 della Corte di Cassazione prende le mosse dall’atto di citazione, presentato dai proprietari di un appezzamento di terreno, con cui questi chiedevano di accertare l’inopponibilità, nei loro confronti, della servitù di passaggio pedonale e veicolare costituita, in una precedente vendita, a favore del proprietario del fondo confinante.

Le parti attrici evidenziavano come la nota di trascrizione fosse relativa alla sola compravendita, mentre l’acquisto del diritto reale di servitù veniva unicamente menzionato nel “quadro D” della nota di trascrizione della compravendita.

Pertanto, dal momento che per la costituzione di servitù non era stata presentata un’apposita e separata nota di trascrizione, la servitù non poteva esser loro opposta.

Il convenuto, proprietario del fondo confinante, chiedeva, invece, che venisse accertata l’opponibilità di detta servitù volontaria agli attori ovvero che la stessa venisse dichiarata costituita per sentenza.

L’istanza delle parti attrici, sia in primo grado che in sede di gravame, veniva disattesa.

La decisione n. 28694/2023 della Corte di Cassazione

Con la Sentenza n. 28694/2023, la Corte di Cassazione ha superato il precedente orientamento giurisprudenziale (v. Sentenza n. 16853 del 24.06.2019) secondo il quale affinché il negozio costitutivo di servitù, stipulato contestualmente ad un contratto di compravendita, possa considerarsi validamente trascritto non è necessario che la pubblicità del medesimo venga eseguita mediante presentazione di una specifica e separata nota (distinta da quella relativa al negozio di compravendita), essendo sufficiente che nell’unica nota di trascrizione sia fatta menzione della costituzione della servitù e che le indicazioni riportate nella nota stessa permettano di individuare il contenuto giuridico essenziale del diritto reale di godimento acquisito, senza possibilità di equivoci o di incertezze in ordine al suo concreto atteggiarsi.

Con la Sentenza in commento la Corte di Cassazione ha, invece, affermato il seguente principio di diritto: «Qualora un contratto di compravendita di un fondo contenga una ulteriore convenzione, costitutiva di un diritto di servitù in favore dell’immobile alienato ed a carico di altro fondo di proprietà del venditore, agli effetti dell’art. 17, comma 3, della legge n. 52 del 1985, è necessario presentare distinte note di trascrizione per il negozio di trasferimento della proprietà e per la convenzione di costituzione della servitù, né rileva, ai fini della opponibilità della servitù ai terzi, la menzione del relativo titolo contrattuale nel “quadro D” della nota di trascrizione della vendita, che può essere destinato a mere specificazioni e non rileva ai fini dell’opponibilità, avendo il valore di mera pubblicità notizia».

Pertanto, la Corte di Cassazione, in mancanza di trascrizione della servitù in specifica e separata nota, distinta da quella relativa alla compravendita, discostandosi da quanto stabilito dai Giudici di prime e seconde cure, ha accolto il ricorso delle parti attrici, cassando con rinvio la Sentenza d’appello impugnata.

La Corte di Cassazione, inoltre, ha specificato che chi acquista un fondo gravato da servitù non trascritta lo acquista comunque libero agli effetti dell’art. 2644 c.c. e la dichiarazione ricognitiva dell’acquirente non può sopperire al difetto di trascrizione, in quanto la disciplina sulla trascrizione non è rinunciabile dalle parti. Peraltro, la dichiarazione con cui il successivo acquirente del fondo servente si impegna a rispettare la servitù occulta dovrebbe essere rivolta a vantaggio del proprietario del fondo dominante, alla stregua di un accollo di diritto reale.

USUCAPIBILITA’ DELLA SERVITU’ DI MANTENIMENTO DI UNA COSTRUZIONE A DISTANZA ILLEGALE Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, Ordinanza n. 25843 del 05.09.2023.

Con Ordinanza n. 25843 del 05.09.2023 la Sezione Seconda della Corte di Cassazione si è espressa circa la possibilità di acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore rispetto a quella dettata dal Codice Civile e dalle norme urbanistiche, anche nell’ipotesi in cui la costruzione sia abusiva.

La disciplina delle distanze legali

Ai sensi dell’art. 873 c.c. “Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri.

Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore”.

Il Legislatore ha così fissato una regola generale, imponendo una distanza minima di tre metri tra gli edifici finitimi.

Per fondi finitimi si intendono quei fondi che hanno in comune in tutto o in parte la linea di confine, cioè quelli che sono caratterizzati da continuità fisica e materiale per contatto reciproco lungo una comune linea di demarcazione.

Ratio della disposizione è quella di impedire strette ed insalubri intercapedini tra gli edifici privati, che, oltre ad ostacolare il godimento della luce e dell’aria, possono favorire anche il verificarsi di eventi sinistri quali furti o incendi. La norma tutela sia gli interessi generali sia quelli dei proprietari privati e persegue, altresì, finalità urbanistiche, garantendo una razionale organizzazione degli agglomerati urbani e l’equilibrata composizione spaziale – urbanistica.

Il secondo comma dell’art. 873 c.c. attribuisce carattere integrativo/derogatorio ai regolamenti locali.

I regolamenti edilizi locali sono atti di normazione secondaria ed hanno una efficacia integrativa della norma primaria.

Il Testo Unico delle disposizioni in materia edilizia (D.P.R. n.380 del 2001) prevede all’articolo 2, quarto comma, che i Comuni nell’ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all’art. 3 del TUEL, possano disciplinare l’attività edilizia[1].

Il regolamento edilizio contiene la disciplina delle modalità costruttive con particolare riguardo al rispetto delle normative tecniche, estetiche, igienico – sanitarie, di sicurezza e vivibilità.

Le norme dei regolamenti edilizi che fissano distanze in deroga a quelle previste dalla normativa codicistica, stante il rinvio alle medesime contenuto nell’art. 873 c.c., hanno, pertanto, carattere integrativo.

La natura integrativa di tali norme non implica la sola deroga alle distanze minime legali ma si estende all’intero assetto ed impianto delle regole e dei principi che permeano la materia.

I regolamenti edilizi possono, dunque, derogare in melius le distanze legali, permettendo la costruzione di edifici a distanze maggiori da quelle previste dalla normativa codicistica.

Ai regolamenti edilizi è attribuito carattere cogente in quanto essi, pur costituendo fonte di diritti soggettivi privati, sono dettate a presidio di interessi urbanistici generali, non disponibili da parte dei soggetti privati: ad esempio, la fondamentale norma contenuta nell’art. 9 del D.M. n.1444 del 1968,disciplinante la distanza tra fabbricati ed edifici in termini pubblicistici, che, al fine di evitare la formazione di intercapedini dannose, prevede una distanza maggiore (dieci metri) tra edifici con pareti finestrate in deroga a quella prevista dall’art. 873 c.c..

I requisiti dell’usucapione

L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà o di altro diritto reale a titolo originario che trova disciplina agli artt. 1158 e ss. c.c..

L’art. 1158 c.c. prevede che “La proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.

L’usucapione risponde all’esigenza di eliminare le situazioni di incertezza circa l’appartenenza dei beni, in presenza di una consolidata situazione di fatto, qual è il possesso di un bene protratto per un certo tempo.

I requisiti dell’istituto sono i seguenti:

  1. il potere di fatto sulla cosa (corpus possessionis): ovvero l’elemento oggettivo del possesso caratterizzato dal potere di fatto sulla cosa e, quindi, la soggezione della cosa al soggetto e la corrispondente signoria del soggetto sulla cosa stessa;
  2. l’animus possidendi: l’animus rappresenta la componente soggettiva, intesa come intenzione di esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale;
  • il possesso pacifico, inequivoco, pubblico e continuato;
  1. il possesso ininterrotto nel tempo;
  2. la mancata rivendicazione del bene da parte del proprietario.

La possibilità di usucapire il diritto di servitù avente ad oggetto una distanza legale non è sempre stata pacifica. Infatti, parte della dottrina ha configurato tale diritto come un vero e proprio diritto reale di servitù, ammettendo, quindi, che le servitù siano suscettibili di possesso e della relativa tutela.

L’orientamento opposto, invece, ha ritenuto che le limitazioni legali alla proprietà non derivano da un autonomo diritto reale, ma sono connaturate alle facoltà inerenti al diritto di proprietà: negando, dunque, la configurabilità di un loro possesso, ed ammettendo, tuttavia, la tutela possessoria, poiché la loro violazione si traduce in una molestia per il possessore del fondo protetto.

Sul punto si è espressa la Corte di Cassazione che in diverse pronunce ha ammesso la possibilità di acquistare per usucapione una servitù relativa ad una distanza legale. [2]

L’Ordinanza n. 25843 del 05.09.2023 della Corte di Cassazione

La quaestio a fondamento del giudizio trae origine dalla richiesta da parte dei proprietari di un compendio immobiliare di accertare l’illegittimità della costruzione di un fabbricato realizzato dai proprietari del fondo confinante in violazione delle distanze legali.

Nel giudizio di prime cure, parte attrice, in particolare, ha eccepito, nonostante la regolarizzazione in via amministrativa delle opere mediante il rilascio di concessione in sanatoria da parte del Comune, la violazione delle distanze legali di cui al D.M. n. 1444 del 1968 e del PRG del Comune vigente all’epoca della costruzione.

Parte convenuta, per converso, ritenendo legittima la costruzione, ha eccepito l’intervenuta usucapione del diritto a conservare l’edificio a distanza inferiore a quella legale.

Il Tribunale ha accolto l’eccezione dei convenuti di intervenuta usucapione a mantenere il fabbricato a distanza inferiore da quella legale “ritenendo i limiti imposti dai piani regolatori e dagli strumenti urbanistici, richiamati dall’art. 873, comma 2, c.c., derogabili dai privati e, conseguentemente, usucapibile il diritto reale al mantenimento del fabbricato”.

La decisione del Giudice di primo grado è stata confermata anche nel giudizio d’appello.

È stato, dunque, proposto ricorso innanzi al Corte di Cassazione per violazione degli artt. 873, 1061 e 1158 c.c., nonché dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968.

La Corte di Cassazione, ritenendo infondati i motivi del gravame, ha affermato che “Come ricorda Cass. ord. n. 343/2023, seppur non è mancata qualche pronuncia che ha opinato in senso contrario (come Cass. n. 20769 del 2007), ormai da tempo, questa Corte costantemente afferma che, in materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali”.

La Corte di Cassazione, pertanto, ha ritenuto ammissibile la possibilità di usucapire il diritto a tenere ad una distanza inferiore da quella legalmente prevista un immobile, precisando che “L’usucapibilità del diritto a tenere un immobile a distanza inferiore da quella legale non equivale, in effetti, alla stipula pattizia di una deroga in tal senso perché risponde alla diversa e ulteriore esigenza di garantire la stabilità dei rapporti giuridici in relazione al decorso del tempo. Se dalla norma codicistica o da quella integrativa discende, come comunemente si afferma, il diritto soggettivo del vicino di pretendere che il confinante edifichi a distanza non inferiore a quella prevista, si deve, nondimeno, ammettere, ove anche si consideri vietata la deroga convenzionale, che l’avvenuta edificazione (con opere quindi permanenti e visibili), mantenuta con i requisiti di legge per oltre venti anni, dia luogo al verificarsi dell’usucapione, da parte del confinante, del diritto a mantenere l’immobile a distanza inferiore a quella legale: senza che ciò infici, naturalmente, le facoltà della pubblica amministrazione, restando, così, salva la disciplina pubblicistica e l’osservanza degli standard d i qualsivoglia natura che il legislatore o l’amministrazione abbiano fissato, anche alla stregua, eventualmente, di normativa di fonte sovranazionale”.

Per la Suprema Cortea nulla rileva il fatto che la costruzione sia abusiva poiché l’irregolarità edilizia non ha alcun riflesso sul piano civilistico, non ostando, pertanto, alla possibilità che si perfezionino i requisiti e termini necessari ai fini dell’usucapione.

Nella fattispecie la Corte, dunque, ha ritenuto ammissibile l’acquisto per usucapione della servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella prevista dalla normativa vigente, pronunciando la seguente massima: “Deve, in definitiva, ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dal codice civile o dai regolamenti e dagli strumenti urbanistici: e ciò vale anche nel caso in cui la costruzione sia abusiva, atteso che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem”, confermando l’orientamento giurisprudenziale consolidato sul punto.[3]

[1] I comuni, nell’ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, disciplinano l’attività edilizia.
[2]Sul punto si vedano: Corte Cass. 25863/2021; Corte Cass. n. 1395/2017; Corte Cass. n. 3979/2013; Corte Cass. n. 4240/2010.
[3]Sul punto Cass. n. 3979 del 2013; Cass. n. 1395 del 2017; Cass. n. 25863 del 2021.

LA RATIFICA DEL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR DI UNA SOCIETA’

La rappresentanza volontaria e la rappresentanza senza potere: la disciplina codicistica.

Con l’istituto della rappresentanza (artt. 1387 e ss. c.c.) un soggetto (rappresentato) attribuisce – mediante conferimento della procura, ex art. 1392 c.c. – ad un altro soggetto (rappresentante) il potere di sostituirlo nel compimento di una o più attività giuridiche.

In particolare, ai sensi dell’art. 1388 c.c., il rappresentante agisce in nome del rappresentato (c.d. contemplatio domini), ed il negozio giuridico dallo stesso concluso “produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato” (rappresentanza c.d. diretta).

Nella rappresentanza c.d. indiretta, invece, il rappresentante, pur agendo nell’interesse del rappresentato, opera in nome proprio; quindi, gli effetti giuridici dell’attività posta in essere non si producono direttamente nella sfera giuridica del rappresentato (per il che è necessario un ulteriore negozio giuridico tra rappresentato e rappresentante), ma in quella del rappresentante.

Il Codice Civile contempla, altresì, il fenomeno della rappresentanza senza poteri, e disciplina gli effetti del contratto concluso dal c.d. falsus procurator, ossia di colui che esercita il potere rappresentativo i) senza averne i poteri (difetto di rappresentanza), oppure ii) eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli (eccesso di rappresentanza).

Nello specifico, il contratto posto in essere dal c.d. falsus procurator non produce effetti nella sfera giuridica del rappresentato (essendo il soggetto privo di poteri rappresentativi) né in quella del rappresentante (avendo agito quest’ultimo spendendo il nome del rappresentato), restando in stato di quiescenza fino all’eventuale successiva ratifica del dominus.

Infatti, ai sensi dell’art. 1399 c.c., il rappresentato, con l’osservanza delle forme prescritte per il contratto (forma per relationem), può ratificare appropriandosi degli effetti giuridici del negozioex tunc.

Secondo consolidata giurisprudenza, “la ratifica dell’attività svolta dal falsus procurator non si realizza con la semplice conoscenza che di essa abbia avuto il dominus, ma esige che tale soggetto ponga in essere una manifestazione di volontà, che deve essere portata a conoscenza dell’altro contraente, diretta ad approvare il contratto concluso senza potere rappresentativo ed a farne propri, con efficacia retroattiva, gli effetti”(testualmente, Cass. Civ., Sentenza n. 2153/2014).

Invece, nel caso in cui il soggetto rappresentato non ponga in essere la ratifica del negozio giuridico, il falsus procurator è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per aver confidato – senza colpa – nella validità del contratto (art. 1398 c.c.).

In tale ipotesi, il risarcimento del danno di cui il terzo contraente può beneficiare è limitato all’interesse (negativo) a non essere coinvolto in stipulazioni invalide o inefficaci.

La disciplina della ratifica non si applica in caso di rappresentanza apparente, che si verifica qualora i) il falso rappresentante ha creatol’apparenza di essere effettivamente dotato di procura, e ii) il falso rappresentato ha contribuito a creare la situazione di apparenza ingenerando nel terzo contraente l’affidamento incolpevole circa l’esistenza effettiva di poteri rappresentativi in capo al falsus procurator.

In tale ipotesi, il contratto produce effetti nella sfera giuridica del rappresentato a prescindere dalla ratifica di quest’ultimo.

I presupposti della ratifica in ambito societario:

Corte d’Appello di Milano, Sentenza n. 1458 del 06 maggio 2023.

L’istituto della ratifica (e, in generale, le conseguenze dei contratti stipulati da un soggetto pseudo-rappresentante) assume particolare importanza in ambito societario.

Nello specifico, la figura del c.d. falsus procurator è stata utilizzata dalla Suprema Corte per disciplinare gli effetti del contratto stipulato prima della costituzione della Società (intervenuta solo successivamente).

Infatti, “il contratto concluso in nome di una costituenda società di capitali non è né nullo, né annullabile, né esprime mere proposte contrattuali, ma è solo inefficace: colui che agisce in nome di una società di capitali prima dell’iscrizione di questa nel registro delle società è qualificabile come falsus procurator ed incorre perciò nella responsabilità prevista dall’art. 1398 c.c.” (testualmente, Cass. Civ., Sentenza n. 10628/2023; ex multis, Cass. Civ., Sentenza n. 21520/2004).

Pertanto, la Società (una volta costituita) potrà legittimamente ratificare il negozio, i cui effetti retroagiscono al momento della stipulazione.

Con la recente Sentenza n. 1458 del 06.05.2023 della Corte d’Appello di Milano – emessa all’esito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto la cessione di crediti – il Collegio ha ribadito l’applicabilità della disciplina giuridicaprevista per la rappresentanza senza potere, specificando che:

  1. i) posto che il potere di decidere se ratificare o meno l’attività giuridica svolta dal falsus procurator della Società spetta esclusivamente alla Società stessa (in qualità di soggetto rappresentato ed ai sensi dell’art. 1399 c.c.), l’“inefficacia degli atti compiuti dal rappresentante senza potere è […] rilevabile solo su eccezione [del rappresentato-Società] e non d’ufficio”.
  2. ii) la ratifica può desumersi da fatti concludenti (ad esempio, la volontà della Società di avvalersi degli atti compiuti dal rappresentante senza poteri), purché compiuti dall’organo istituzionalmente competente a provvedere ad essi.

Nel caso specifico, stante l’assenza di specifica eccezione da parte della Società, la Corte territoriale non ha esaminato nel merito la questione concernente l’inefficacia della cessione del credito per difetto di idonei poteri di rappresentanza in capo al soggetto pseudo-rappresentante della Società cessionaria.

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SEZIONI UNITE CORTE DI CASSAZIONE, ORDINANZA N. 14776 del 26.05.2023 – Partecipazione di soci privati al capitale sociale di Società in house providing

Il requisito del “controllo analogo” nelle Società in house providing

Come noto, la Società in house è una longa manus della pubblica amministrazione, con la conseguenza che essa non può ritenersi terza rispetto all’Amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’Amministrazione stessa (ex plurimis, Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 1/2008).

Pertanto, l’Amministrazione deve esercitare sulla Società in house un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e, quindi, incidere in modo determinante su relativi obiettivi e decisioni.

Attraverso il c.d. controllo analogo l’azionista pubblico svolge un’influenza dominante sulla Società, se del caso attraverso strumenti derogatori rispetto agli ordinari meccanismi di funzionamento (Cass. Civ., Sent. n. 7646/2023).

Con la recente Ordinanza n. 14776 in data 26.05.2023 la Suprema Corte si è pronunciata in merito alla permanenza del requisito del c.d. controllo analogo nell’ipotesi in cui la Società sia partecipata da soci privati (o, qualora, lo Statuto ne preveda l’eventuale partecipazione).

Il caso deciso dalle Sezioni Unite

Nel caso di specie, la Procura Regionale della Corte dei Conti ha convenuto in giudizio gli Amministratori di una Società di gestione del servizio di trasporto pubblico locale, chiedendone la condanna al risarcimento del danno erariale conseguente alla risoluzione anticipata di alcuni contratti di leasing.

La Sezione Giurisdizionale per il Lazio della Corte dei Conti ha rilevato il proprio difetto di giurisdizione poiché lo Statuto della Società prevedeva la facoltà (ancorché non attuata nel caso in questione)di cedere azioni ordinarie a propri dipendenti, con la conseguenza che, vista la possibile presenza di soci privati nella compagine sociale, la Società non poteva essere considerata in house providing.

All’esito dell’appello promosso dalla Procura, la Terza Sezione Giurisdizionale Centrale d’appello della Corte dei Conti ha accolto l’impugnazione, ritenendo esistente la natura in house providing della Società, e quindi la giurisdizione contabile, poiché i) le azioni cedibili ai dipendenti erano prive del diritto di voto e ii) la cessione di azioni a titolo gratuito ai dipendenti a titolo di premio non era assimilabile ad una vendita di azioni a soci privati.

Gli ex Amministratori hanno promosso gravame avverso la predetta Sentenza e la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con Ordinanza n. 14776 del 26.05.2023, ha rigettato il ricorso.

In particolare, la Suprema Corte ha confermato che la Società doveva essere considerata in house poiché il Consiglio di Amministrazione non si era mai avvalso della facoltà statutaria di cedere azioni ai propri dipendenti e, comunque, la relativa clausola era stata modificata prima di trovare attuazione.

La Società, quindi, in concreto, non aveva mai perso la qualità di società in house.

Tale conclusione è confermata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che, con Sentenza in data 10.9.2009 (causa C-573/07), ha chiarito che “in una situazione come quella di cui trattasi nella causa principale, in cui il capitale della società aggiudicataria è interamente pubblico e in cui non vi è alcun indizio concreto di una futura apertura del capitale di tale società ad investitori privati, la mera possibilità per i privati di partecipare al capitale di detta società non è sufficiente per concludere che la condizione relativa al controllo dell’autorità pubblica non è soddisfatta”.

Inoltre, la Corte di Cassazione ha rilevato che l’appalto di servizi si considera in house anche quando al capitale dell’aggiudicatario partecipino soggetti privati, se non hanno diritti di veto o poteri di controllo, e che la circostanza che l’Amministrazione non possieda il 100% del capitale sociale della Società aggiudicataria del servizio di trasporto non esclude il c.d. controllo analogo dell’aggiudicante.

Dunque, la Suprema Corte ha concluso affermando che la natura di Società in house non è automaticamente esclusa dalla previsione statutaria della facoltà del Consiglio di Amministrazione di cedere azioni a soggetti privati, poiché l’esercizio di tale facoltà non avrebbe privato il socio pubblico del c.d. controllo analogo né avrebbe consentito ai soci privati poteri di controllo o di veto.

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SEZIONI UNITE CORTE DI CASSAZIONE, ORDINANZA N. 5868 DEL 27.02.2023 IL RAPPORTO TRA L’ISTITUTO DELLA FIDEIUSSIONE E LA DISCIPLINA CONSUMERISTICA

Con la recente pronuncia n. 5868 del 27.02.2023, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato l’applicabilità della tutela prevista per i consumatori al fideiussore garante di un credito contratto da una società commerciale.

La tutela dei consumatori

Come noto, tra i principali obiettivi dell’Unione europea, sin dalla sua genesi, rientra la tutela della concorrenza, la cui disciplina costituisce elemento essenziale dell’integrazione europea, consentendo alle imprese di competere a parità di condizioni sui mercati di tutti gli Stati membri. La concorrenza nel mercato europeo viene garantita dagli organi dell’Unione mediante una molteplicità di istituti: si pensi all’articolata disciplina prevista in relazione al divieto di intese restrittive e di sfruttamento abusivo di posizione dominante, nonché ai limiti posti alle operazioni di concentrazione tra imprese e al divieto di aiuti di stato. In questo ampio contesto si colloca anche la disciplina posta a tutela dei consumatori.

La presenza di clausole abusive, infatti, pregiudica il buon funzionamento del mercato in quanto l’impresa che ne fa uso ottiene un indebito vantaggio a discapito delle imprese “sane”. Per tale motivo l’attenzione per la tutela del consumo acquista un’importanza centrale nelle politiche dell’Unione, tanto da essere espressamente richiamata nei Trattati istitutivi[1] e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue[2].

I principi espressi nelle fonti primarie trovano piena applicazione pratica in varie fonti di rango secondario dell’Unione, prima fra tutte la Direttiva 93/13/CEE recante la disciplina degli “unfaircontractterms”.

Soggetti del rapporto obbligatorio consumeristico sono il consumatore ed il professionista, rispettivamente definiti all’art. 2 della citata Direttiva come “qualsiasi persona fisica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale” e “qualsiasi persona fisica o giuridica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisce nel quadro della sua attività professionale, sia essa pubblica o privata”. Oggetto della regolazione ivi contenuta, invece, è la clausola abusiva, definita dall’art. 3 come quella clausola contrattuale che non è stata oggetto di negoziato individuale e che determina, in contrasto con il requisito della buona fede eda danno del consumatore, “un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto”.

Il paragrafo 2 del medesimo articolo 3 puntualizza che la clausola non è oggetto di negoziato individuale “quando è stata redatta preventivamente in particolare nell’ambito di un contratto di adesione e il consumatore non ha di conseguenza potuto esercitare alcuna influenza sul suo contenuto”: elemento scriminante, pertanto, è la possibilità per il consumatore di esercitare una certa influenza sulla determinazione del contenuto del contratto. Il paragrafo 3, infine,fa un rinvio ad un allegato contenente un elenco non esaustivo di clausole che possono essere dichiarate abusive.

La disciplina europea è stata recepita a livello nazionale dal Codice del Consumo ex D.lgs. 206/2005, il cui art. 33 richiama testualmente le definizioni soggettive e oggettiveut supra, specificando che si presumono vessatorie le clausole che abbiano per oggetto o per effetto di “sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria, limitazioni all’adduzione di prove, inversioni o modificazioni dell’onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi”. L’art. 36, poi, prevede che “le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto” e che “la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”.

Ai fini espositivi, infine, giova richiamare anche la nozione dell’istituto della fideiussione prevista dall’art. 1936 c.c., ai sensi del quale “è fideiussore colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui”. Con la fideiussione, dunque, sorge un’obbligazione accessoria, che si sostanzia in una garanzia personale a carico del fideiussore, il quale risponde di tutti i suoi beni presenti e futuri, ex art. 2740 c.c., in favore del creditore.

Evoluzione giurisprudenziale della Corte di Giustizia dell’Ue

La Direttiva 93/13/CEE è stata etichettata come la “bella addormentata” in ragione del fatto che, per oltre un decennio, la sua portata applicativa è stata molto limitata. Il pressante intervento dei Giudici nazionali, per mezzo del rinvio pregiudiziale ex art. 279 TFUE, ha consentito il suo “risveglio” ad opera della Corte di Giustizia dell’Ue.

In particolare, la crisi finanziaria del 2008-2010 ha posto le basi per un’interpretazione sempre più estensiva dell’ambito di applicazione della Direttiva su diversi fronti: tra questi, per quanto di interesse, rientra l’applicabilità della tutela consumeristica al fideiussore garante di un credito contratto da una società commerciale.

L’intervento della giurisprudenza europea in materia è stato determinante. Fino alle più recenti pronunce della Corte di Giustizia Ue (di cui si dirà meglio infra) l’orientamento tradizionale nazionale riteneva che il fideiussore persona fisica non potesse essere qualificato come consumatore qualora prestasse garanzia a favore di un soggetto professionale[3]. Tale orientamento, che vedeva il fideiussore come un “professionista di riflesso”, peraltro non si poneva in contrasto con la giurisprudenza europea più risalente[4] che, attribuendo rilevanza al solo dato oggettivo del rapporto ed evidenziando il rapporto di accessorietà tra l’atto principale e la garanzia, riteneva applicabile la disciplina consumeristica solo se il contratto principale fosse un atto di consumo.

Con l’Ordinanza emessa in data 19.11.2015 all’esito del giudizio C-74/2015 (caso Tarcău c/ Banca Comercială Intesa Sanpaolo România SA), la Corte di Giustizia ribalta totalmente l’orientamento sino ad allora dominante nelle varie Corti nazionali, affermando la necessità di dare rilevanza non più al dato oggettivo, bensì a quello soggettivo. In particolare, la Corte europea afferma che “quanto alla questione se una persona fisica che si impegna a garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di un istituto bancario in base a un contratto di credito possa essere considerata un «consumatore» […] occorre rilevare che un siffatto contratto di garanzia o di fideiussione, sebbene possa essere descritto, in relazione al suo oggetto, come un contratto accessorio rispetto al contratto principale da cui deriva il debito che garantisce, dal punto di vista delle parti contraenti esso si presenta come un contratto distinto quando è stipulato tra soggetti diversi dalle parti del contratto principale. È dunque in capo alle parti del contratto di garanzia o di fideiussione che deve essere valutata la qualità in cui queste hanno agito”; conclude, poi, affermando che “spetta al giudice nazionale, investito di una controversia relativa a un contratto idoneo a rientrare nell’ambito di applicazione di tale direttiva, verificare, tenendo conto di tutte le circostanze della fattispecie e di tutti gli elementi di prova, se il contraente in questione possa essere qualificato come «consumatore» ai sensi della suddetta direttiva[5].

L’Ordinanza n. 5868/2023 delle Sezioni Unite

La giurisprudenza di legittimità[6] si è adeguata al nuovo orientamento, ritendo sempre più spesso applicabile la disciplina consumeristica in relazione ad un contratto di fideiussione stipulato da una persona fisica in favore di una società. Esplicativa è, sul punto, la Sentenza del 16.01.2020 n. 742 in cui la Corte di Cassazione afferma che l’accessorietà fideiussoria “non può venire proiettata fuori da esso, per spingerla sino a incidere sulla qualificazione dell’attività – professionale o meno – di uno dei contraenti; tanto meno, l’accessorietà potrebbe far diventare un soggetto (il fideiussore o, più in generale, il terzo garante) il replicante, ovvero il duplicato, di un altro soggetto (il debitore principale)”.  La qualificazione del contraente persona fisica, infatti, deve essere valutataalla stregua del criterio generale del consumatore di cui all’art. 3 del Codice del consumo. Conclude, dunque, affermando che dev’essere considerato consumatore “il fideiussore persona fisica che, pur svolgendo una propria attività professionale (o anche più attività professionali), stipuli il contratto di garanzia per finalità non inerenti allo svolgimento di tale attività, bensì estranee alla stessa, nel senso che si tratti di atto non espressivo di questa, né strettamente funzionale al suo svolgimento (c.d. atti strumentali in senso proprio)”.

Con l’Ordinanza del 27.02.2023n. 5868le Sezioni Unite confermano l’orientamento introdotto dalla giurisprudenza eurounitaria, seppur con qualche precisazione ulteriore. In particolare, nel contratto di fideiussione, i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica devono essere valutati con riferimento alle parti di esso senza considerare il contratto principale. Ciò non esclude, pertanto, l’applicazione della disciplina “ordinaria”. Infatti, proprio nel caso in esame, la Suprema Corte ha affermato che non fosse qualificabile come consumatore un fideiussore che aveva garantito l’adempimento delle obbligazioni di una società commerciale al medesimo riconducibile sulla scorta di plurimi elementi indiziari. È da escludere, dunque, la sussistenza di un automatismo, dovendosi stabilire, sulla base delle risultanze probatorie acquisite, se la prestazione della garanzia rientri nell’attività professionale del garante o se vi siano collegamenti funzionali che lo leghino alla garantita o se abbia agito per scopi di natura privata.

Profili problematici a latere: cenni

Ben prima che le Sezioni Unite si pronunciassero in via definitiva sull’applicabilità della disciplina consumeristica ai contratti di fideiussione stipulati a garanzia di un credito commerciale, le Corti territoriali si sono trovate ad affrontare le conseguenze pratiche derivanti dall’orientamento delineato dalla giurisprudenza europea.

Sul punto, meritano di essere trattate, seppur brevemente, due problematiche: la prima, di natura oggettiva, relativa alla natura vessatoria della clausola derogatoria della decadenza prevista dall’art. 1957 c.c.; la seconda, di natura soggettiva, connessa alla possibilità o meno di qualificare consumatore il socio fideiussore di un credito contratto dalla società di cui fa parte.

Sotto il primo profilo, l’art. 1957 c.c. prevede una causa di decadenza dalla garanzia fideiussoria ogniqualvolta il creditore, entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione principale, non abbia proposto le sue istanze contro il debitore o non le abbia con diligenza continuate. In termini generali, tale termine decadenziale è liberamente derogabile dalle parti, le quali possono decidere di estenderlo o escluderlo, e può essere oggetto di rinuncia espressa o tacita del fideiussore. Diversamente, quando il garante rivesta la qualità di consumatore, in base all’orientamento prevalente delineato dalle Corti di merito la conclusione di tale accordo derogatorio deve essere necessariamente perfezionata nel rispetto delle forme di tutela non più formali ma sostanziali richieste dal Codice del Consumo, con onere per il professionista di provare che le clausole unilateralmente predisposte siano state oggetto di trattativa[7].

In un recente caso, avente ad oggetto un’opposizione ex art. 645 c.p.c., il Tribunale di Treviso con Sentenza del 28.10.2022 ha revocato il Decreto emesso nei confronti del fideiussore consumatore per essere l’istituto di credito ingiungente decaduto dall’azione ex art. 1957 c.c., ritenendo la clausola di deroga nulla ai sensi degli artt. 33, comma 2, lett. t), e 36 del Codice del Consumo, in quanto limitativa della facoltà del consumatore di opporre al creditore l’eccezione di intervenuta estinzione dell’obbligazione fideiussoria prestata[8]. Infine, la Suprema Corte di Cassazione nella Sentenza del 28.02.2020 n. 5598, quantunque relativa ad un contratto autonomo di garanzia, ha affermato che la clausola di deroga al termine di decadenza previsto dall’articolo 1957 c.c. costituisce clausola vessatoria, con conseguente nullità parziale (rectius di protezione) del contratto.

Con riferimento al problema connesso al secondo profilo, in realtà già la Corte di Giustizia Ue nel citato caso C-74/2015 ha fornito alcune indicazioni di principio affermando che “spetta quindi al giudice nazionale determinare se tale persona abbia agito nell’ambito della sua attività professionale o sulla base dei collegamenti funzionali che la legano a tale società, quali l’amministrazione di quest’ultima o una partecipazione non trascurabile al suo capitale sociale, o se abbia agito per scopi di natura privata”. Sulla scia di tale indirizzo interpretativo, le Corti territoriali hanno tentato di fornire criteri specifici da applicare al caso concreto.

Ad esempio, il Tribunale di Padova con la Sentenza del 06.04.2021 ha aperto alla possibilità di qualificare consumatore il socio di una società a responsabilità limitata, in quanto tale senza poteri di amministrazione di gestione e non fallibile. Allo stesso modo, il Tribunale di Roma con la Sentenza del 16.06.2021 n. 9561 ha escluso la natura professionale del fideiussore, in quanto la qualifica di socio di una società cooperativa era finalizzata solo all’acquisto di un immobile in costruzione e non anche connessa ad interessi economici legati alla gestione della società. Infine, il Collegio arbitrale di Milano, con Decisione del 27.09.2016 n. 8296 ha affermato la sussistenza della qualità di consumatore al socio che, resosi garante dei debiti della S.r.l., non abbia mai preso parte, neppure minimamente, all’operatività concreta della stessa né abbia ricoperto cariche gestori e o dirigenziali né, ancora, abbia agito quale destinatario di incarichi particolari all’interno dell’organigramma aziendale.

Non mancano, però, pronunce in senso contrario. Ad esempio, il Tribunale di Genova con la Sentenza del 18.01.2022 n. 100 ha ritenuto non applicabile la disciplina consumeristica al ricorrente-fideiussore in quanto la società garantita era inserita in un gruppo di imprese che mettevano a capo anche il garante e, inoltre, il medesimo era socio di maggioranza della società garantita. Allo stesso modo, con la Sentenza del 27.04.2022 n. 248 il Tribunale di Prato ha escluso la qualità di consumatore al socio in quanto rivestiva la qualità di amministratore nella società garantita.

Considerazioni finali

Come evidente, la pronuncia esaminata si colloca in un più ampio contesto giurisprudenziale[9], alimentato per lo più dall’esigenza di far fronte a problematiche non tanto giuridiche quanto economiche e sociali. Si tratta di una tendenza che, di sicuro, non si arresterà a questa pronuncia, essendo necessario chiarire, come osservato, diversi aspetti di rilevanza sotto il profilo pratico. Inoltre, il peso che il mercato consumeristico continua a rivestire, soprattutto con l’incremento spropositato dell’e-commerce, fa ben credere che la tutela del consumo sia destinata a rivestire un ruolo sempre più centrale nelle politiche dell’Unione europea.

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[1]Si fa riferimento all’art. 12 TFUE, laddove si afferma che “nella definizione e nell’attuazione di altre politiche o attività dell’Unione sono prese in considerazione le esigenze inerenti alla protezione dei consumatori”.
[2]L’art. 38 prevede che “Nelle politiche dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori”.
[3]Ex multis, v. Corte di Cassazione, Sez. III, Sent. 20.11.2011 n. 25212.
[4]Corte di Giustizia dell’Ue, Sentenza emessa nella Causa C-45/96.
[5]V. in tal senso anche Sentenza emessa nel caso C-110/14 (Caso Costea), punti 22 e 23.
[6]Ex multis, v. Corte di Cassazione, Sez. VI, Sent. 26.03.2019 n. 8419; Corte di Cassazione, Sez. III, Ord. 13.02.2018 n. 32225.
[7]V. Tribunale di Treviso, Sent. 07.06.2018 n. 1185.
[8]Cfr. anche: Tribunale di Alessandria, Sent. 14.08.2020 n. 480; Tribunale di Catania, Sent. 13.12.2019; Tribunale di Firenze, Sent. 11.12.2019; Tribunale di Firenze, Sent. 7.11.2019; Tribunale di Padova, Sent. 29.1.2019; ABF, Collegio di Milano, 4.7.2019.
[9]V. da ultimo Corte di Cassazione, SS.UU, Sent. 6.4.2023 n. 9479.

LA DONAZIONE INDIRETTA

Ai sensi dell’art. 769 c.c., la donazione è il contratto mediante il quale una delle parti, per spirito di liberalità, arricchisce l’altra, disponendo a favore di quest’ultima di un suo diritto o assumendo un’obbligazione nei confronti della medesima.

Gli elementi caratterizzanti il contratto di donazione, quale negozio a titolo gratuito, sono:

  • lo spirito di liberalità del donante (animus donandi) che costituisce la causa del contratto, in assenza del quale il contratto è nullo (ex art. 1418 c.c.);
  • l’arricchimento del donatario, ossia l’incremento del patrimonio dello stesso.

Posto che la donazione è un negozio giuridico a struttura bilaterale, devono coesistere:

  • la volontà del donante di arricchire l’altra parte senza ricevere un corrispettivo ed in assenza di costrizioni morali o giuridiche,
  • l’accettazione del donatario.

La forma della donazione

Ai sensi dell’art. 782 c.c., l’atto pubblico è condizione di validità della donazione, qualunque ne sia l’oggetto (beni mobili ed immobili)[1].

Inoltre, ai sensi dell’art. 48 della L. n. 89/1913 (“Ordinamento del notariato e degli archivi notarili” – c.d. Legge Notarile), la stipulazione del contratto di donazione richiede necessariamente la presenza di due testimoni.

Il regime della forma solenne risponde a finalità preventive a tutela del donante: in particolare, mira a prevenire scelte affrettate mediante le quali il medesimo si spoglia di un proprio diritto senza alcun corrispettivo.

La donazione indiretta

Lo spirito liberale di arricchire l’altra parte può essere raggiunto in modi indiretti, avvalendosi di negozi giuridici che hanno una causa diversa da quella liberale, propria del contratto di donazione.

Sul punto, la Suprema Corte afferma che “[…] la donazione indiretta si identifica in ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da fine di liberalità e abbia lo scopo e l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario.

[…] nella donazione indiretta la liberalità si realizza, anziché attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di uno o più atti che, conservando la forma e la causa che è ad essi propria, realizzano, in via indiretta, l’effetto dell’arricchimento del destinatario, sicché l’intenzione di donare emerge non già, in via diretta, dall’atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall’esame, necessariamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da chi ne abbia interesse” (Cass. Civ., Sez. II, Ord. n. 9379/2020).

La donazione indiretta (o liberalità donativa) è disciplinata dall’art. 809 c.c., che dispone l’applicabilità della revocazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli, oltre che l’assoggettabilità all’azione di riduzione ed alla collazione, anche per gli “atti diversi da quelli previsti dall’articolo 769”.

La donazione indiretta è soggetta unicamente alla disciplina che regola la figura negoziale in concreto adottata, e non a quella prescritta per la donazione: in particolare, non si applica la forma solenne prescritta dall’art. 782 c.c. (atto pubblico e obbligo di intervento dei testimoni).

La corretta qualificazione della liberalità

Sezioni Unite della Corte di Cassazione, Sentenza n. 18725/2017
La Suprema Corte con la sentenza n. 18725/2017 – relativa alla validità del trasferimento di strumenti finanziari mediante ordine impartito all’istituto di credito da parte del disponente – ha effettuato una ricognizione delle precedenti pronunce giurisprudenziali in materia di liberalità al fine di “considerare gli aspetti di distinzione delle liberalità non donative rispetto al contratto di donazione”, e, quindi, di valutare l’applicabilità dello schema formale del contratto di donazione ovvero di una diversa forma negoziale.

In particolare, secondo la Corte, si configura donazione indiretta priva del requisito formale:

  • con il contratto a favore di terzo;
  • con il pagamento di un debito altrui;
  • con il pagamento di un prezzo dovuto da altri;
  • con la vendita di un bene ad un prezzo irrisorio;
  • con la rinuncia ad un credito a favore del debitore.

La Corte, quindi, richiamando la dottrina e muovendo dall’esperienza giurisprudenziale in materia, ha statuito che “la donazione indiretta non si identifica totalmente con la donazione, cioè con il contratto rivolto a realizzare la specifica funzione dell’arricchimento diretto di un soggetto a carico di un altro soggetto, il donante, che nulla ottiene in cambio, in quanto agisce per spirito di liberalità. Si tratta di liberalità che si realizzano:

(a) con atti diversi dal contratto (ad esempio, con negozi unilaterali come l’adempimento del terzo o le rinunce abdicative);

(b) con contratti (non tra donante e donatario) rispetto ai quali il beneficiario è terzo;

(c) con contratti caratterizzati dalla presenza di un nesso di corrispettività tra attribuzioni patrimoniali;

(d) con la combinazione di più negozi (come nel caso dell’intestazione di beni a nome altrui)”.

Invece, secondo la Corte si configura donazione diretta – con conseguente applicabilità della forma vincolata ab substantiam – ogniqualvolta si realizzi il passaggio immediato per spirito di liberalità di ingenti valori patrimoniali da un soggetto ad un altro“non essendo ragionevolmente ipotizzabile che il legislatore consenta il compimento in forme differenti di uno stesso atto, imponendo, però, l’onere della forma solenne soltanto quando le parti abbiano optato per il contratto di donazione”.

Quindi, la donazione diretta è un contratto fra donante e donatario la cui unica funzione è quella di realizzare direttamente, per puro spirito di liberalità, l’arricchimento di quest’ultimo con conseguente depauperamento del donante, mentre nella donazione indiretta questa funzione è ulteriore rispetto a quella propria dello strumento giuridico utilizzato, e tale risultato può validamente ottenersi mediante l’utilizzo delle forme negoziali succitate.

Pertanto, la donazione di strumenti finanziari eseguita mediante un ordine di bonifico impartito dal soggetto intestatario all’istituto di credito non costituisce donazione indiretta (in ragione della mera realizzazione indiretta), ma è una donazione tipica ad esecuzione indiretta, con conseguente necessità per le parti di adottare lo schema formale della donazione prescritto dall’art. 782 c.c., a pena di nullità[2].

[1]L’unica eccezione alla necessità della forma solenne per le donazioni è prevista all’art. 783 c.c., che disciplina le “Donazioni di modico valore”.
In tal caso, la donazione di cose mobili di modico valore (“La modicità deve essere valutata anche in rapporto alle condizioni economiche del donante”) si perfeziona con la consegna al donatario della res che ne costituisce l’oggetto.
[2]“In conclusione, deve essere enunciato il seguente principio di diritto: Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l’esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta; ne deriva che la stabilità dell’attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell’atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiario, salvo che ricorra l’ipotesi della donazione di modico valore”.

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