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NORMATIVA ESG E RESPONSABILITA’ DELLE IMPRESE PER UN’ECONOMIA SOSTENIBILE

Nell’ambito del Green Deal europeo, l’Unione Europea sta delineando un quadro normativo sempre più onnicomprensivo in materia ESG (EnviromentalSocial e Governance), acronimo utilizzato in ambito economico/finanziario per indicare tutte le attività legate all’investimento responsabile che perseguono gli obiettivi tipici della gestione finanziaria tenendo in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di governance.

Da un lato, la Direttiva 2022/2464/UE, nota come Corporate Sustainability Reporting Directive (cd. “CSRD”), entrata in vigore il 5 gennaio 2023 ed il cui recepimento è previsto entro il 6 luglio 2024[1], ha lo scopo di promuovere la trasparenza e la divulgazione di informazioni da parte delle imprese riguardo agli impatti ambientali, sociali e legati alla governance (ESG) delle loro attività, attraverso un rafforzamento degli obblighi di reporting da parte delle stesse. 

Dall’altro lato, la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (c.d. “ CS3D ” o “CSDD”), Direttiva (UE) 2024/1760 del 13 giugno 2024  pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 5 luglio 2024, mira alla creazione di un sistema di indagine preventiva da parte delle società destinatarie della normativa (imprese grandi o ad alto-rischio di impatto socio-ambientale), volta a monitorare, prevenire e mitigare gli impatti negativi sull’ambiente, sulle condizioni di lavoro e su diritti e libertà individuali sia della propria attività d’impresa sia della value chain, a monte e a valle. 

Il fine di questi interventi eurounitari è quello di creare un’economia moderna, incentivando la transizione verso un sistema economico sostenibile. 

Sotto il profilo legale, CSRD e CSDD possono considerarsi nuovi strumenti di natura preventiva della responsabilità civile in ambito ambientale.

Corporate Sustainability Reporting Directive 

L’obiettivo della Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) è quello di promuovere la trasparenza e la divulgazione di informazioni che riguardano gli impatti ambientali e sociali, legati alla governance (ESG) delle attività imprenditoriali, attraverso un rafforzamento degli obblighi di reporting, da effettuare con l’utilizzo di criteri uniformi a livello europeo. 

La grande novità della CSRD è l’ampliamento dell’ambito di applicazione degli obblighi di rendicontazione delle informazioni di sostenibilità, che troveranno applicazione nei confronti di tutte le grandi imprese e delle società madri di grandi gruppi, anche non quotate, nonché delle piccole e medie imprese[2] (purché con strumenti finanziari ammessi alla negoziazione su mercati regolamentati e ad esclusione delle microimprese) e delle imprese di paesi terzi (al ricorrere di determinati requisiti).

La CSRD prevede l’obbligo di predisporre la rendicontazione di sostenibilità (in precedenza, “dichiarazione di carattere non finanziario”), secondo standard comuni definiti al livello europeo (ESRS – European Sustainability Reporting Standards). La rendicontazione di sostenibilità deve inoltre essere sottoposta ad apposita vigilanza, finalizzata al rilascio dell’attestazione di conformità agli standard ESRS, e prevedere specifici requisiti per lo svolgimento dei servizi di assurance.

Rendicontazione di sostenibilità

La CSRD prevede che la rendicontazione di sostenibilità  debba contenere “una descrizione […] dei principali impatti negativi, effettivi o potenziali, legati alle attività dell’impresa e alla sua catena del valore, compresi i suoi prodotti e servizi, i suoi rapporti commerciali e la sua catena di fornitura, delle azioni intraprese per indentificare e monitorare tali impatti, e degli altri impatti negativi che l’impresa è tenuta a identificare in virtù di altri obblighi dell’Unione che impongono alle imprese di attuare una procedura di dovuta diligenza”.

Quanto al contenuto, la rendicontazione di sostenibilità include non soltanto le informazioni relative all’impresa stessa o al suo gruppo, ma anche quelle relative alla sua catena di valore, che rappresenta una delle maggiori novità apportate dalla novella legislativa. 

In base al principio della doppia materialità informativa, le imprese dovranno fornire informazioni di sostenibilità sia in merito all’impatto delle proprie attività sulle persone e sull’ambiente (approccio inside-out), sia riguardo al modo in cui i fattori di sostenibilità incidono su di esse e sui loro risultati (approccio outside-in).

In particolare, le informazioni da inserire nella rendicontazione devono riguardare le strategie aziendali connesse alle questioni di sostenibilità ed alla loro compatibilità con la transizione verso un’economia sostenibile e la limitazione del riscaldamento globale, e il ruolo degli organi di amministrazione, gestione e controllo con specifico riferimento alle questioni di sostenibilità ed alla loro composizione, gli obiettivi e le politiche imprenditoriali sulla sostenibilità, oltre che le procedure di due diligence sempre in relazione a tali specifiche problematiche. 

Con la CSRD la rendicontazione di sostenibilità diviene parte integrante della relazione sulla gestione redatta dagli amministratori ai sensi dell’art. 2428 c.c., della quale costituisce una sezione appositamente contrassegnata. Ne deriva che l’adozione e la pubblicazione della rendicontazione di sostenibilità avverranno secondo le tempistiche e con le modalità previste dalla normativa nazionale per l’approvazione e la pubblicazione dei documenti finanziari dell’impresa, con il coinvolgimento degli organi sociali dell’impresa secondo le rispettive competenze e attribuzioni. Da tale inclusione nella relazione di gestione discende, per le società quotate, l’estensione anche alla rendicontazione di sostenibilità della vigilanza demandata alla Consob.

L’applicazione delle disposizioni della CSRD avverrà in maniera graduale nel tempo a seconda della tipologia di destinatari. Più nel dettaglio, a decorrere dall’esercizio finanziario che inizia il: 

i. 1° gennaio 2024 (o ad una data successiva) per le grandi imprese e per le imprese madri di grandi gruppi, con oltre 500 dipendenti (anche su base consolidata) e che siano enti di interesse pubblico, ossia per i soggetti già tenuti all’obbligo di pubblicare la dichiarazione non finanziaria ai sensi del regime previgente; 

ii. 1° gennaio 2025 (o ad una data successiva) per tutte le grandi imprese e le società madri di grandi gruppi diverse da quelle di cui al punto i.;

iii. 1° gennaio 2026 (o ad una data successiva) per le piccole e medie imprese con strumenti finanziari ammessi alla negoziazione su mercati regolamentati, gli enti creditizi piccoli e non complessi e le imprese di assicurazione captive nonchè le imprese di riassicurazione captive

iv.1° gennaio 2028 (o ad una data successiva) per imprese di paesi terzi.

Corporate Sustainability Due Diligence Directive

La Direttiva 2024/1760/UE (c.d. CSDD o CS3D – Corporate Sustainability Due Diligence Directive) è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 5 luglio 2024; gli Stati membri dovranno adottare e pubblicare, entro il 26 luglio 2026, le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla Direttiva. 

Tale normativa si inserisce nel quadro dell’impegno dell’UE di rendere il proprio sistema di diritto all’avanguardia in materia ESG[3], introducendo procedure di due diligence volte alla promozione di condotte aziendali sostenibili ed attente alla tutela dell’ambiente e dei diritti umani.

La Direttiva presenta un ambito di applicazione ristretto: alle sole imprese di significative dimensioni, in particolare quelle con più di 1.000 dipendenti e un fatturato globale netto superiore a 450 milioni di euro; alle società capogruppo di un gruppo che raggiunge i limiti minimi per l’adozione del bilancio d’esercizio consolidato; alle società che abbiano concluso (o che siano capogruppo di un gruppo che abbia concluso) accordi di franchising o di licenza nell’Unione in cambio di diritti di licenza con società terze indipendenti per un valore maggiore a 22,5 milioni di euro  nell’ultimo esercizio, laddove il fatturato globale sia superiore a 80 milioni di euro.

L’art. 5 della CSDD prevede che gli Stati membri assicurano che le società esercitino la due diligence in materia di diritti umani e di ambiente attuando le seguenti azioni:

1) integrare la due diligence nelle politiche aziendali e nei propri sistemi di gestione dei rischi, predisponendo un piano aziendale atto ad assicurare che business model e strategia d’impresa siano compatibili con la transizione ad un’economia sostenibile e con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5 ºC, in linea con l’Accordo di Parigi;

2) individuare e valutare gli impatti negativi effettivi e potenziali sia in ambito ambientale sia nell’ambito dei diritti umani;

3) prevenire e attenuare gli impatti negativi potenziali ed arrestare gli impatti negativi effettivi predisponendo ed implementando un piano d’azione in materia di prevenzione, contenente scadenze ragionevoli e precise per gli interventi e indicatori qualitativi e quantitativi per misurare i progressi fatti. È inoltre richiesto che ciascuna società richieda ai suoi partner commerciali specifiche garanzie contrattuali per il rispetto del proprio codice di condotta ed (eventualmente) del piano operativo di prevenzione, estendendo in tal modo, a livello contrattuale, la rete di protezione dagli impatti negativi lungo l’intera catena del valore di ciascuna impresa coinvolta;

4) riparare gli impatti negativi effettivi;

5) istituire e mantenere una procedura di reclamo, che consenta di trattare reclami presentati dalle persone colpite da un impatto negativo, nonché da quelle che abbiano “fondati motivi di ritenere di poterne essere colpite“, dai sindacati e dagli altri rappresentanti dei lavoratori che rappresentano le persone che lavorano nella catena del valore interessata, nonché dalle organizzazioni della società civile attive nei settori collegati alla catena del valore interessata;

6) monitorare, almeno annualmente, l’efficacia della politica di due diligence e le misure di diligenza adottate;

7) pubblicare annualmente sul proprio sito internet la comunicazione al pubblico sugli obblighi di due diligence implementati nell’anno precedente.

In caso di mancata osservanza degli obblighi di due diligence, l’art. 29 della Direttiva prevede il dovere per tutti gli Stati membri dell’UE di assicurare un sistema di responsabilità civile (extracontrattuale).

Invero, le società soggette alla Direttiva potranno essere ritenute civilmente responsabili in tutti i casi in cui l’inosservanza (dolosa o colposa) degli obblighi di controllo e di prevenzione previsti dalla CSDD in materia di ambiente e diritti umani abbia cagionato un danno agli interessi della persona fisica o giuridica che sono tutelati dal diritto nazionale.

Tuttavia, le disposizioni attuative dovranno esonerare l’impresa da responsabilità per i danni causati esclusivamente dai partner commerciali e dovranno escludere qualsiasi forma di danno punitivo.

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Nonostante l’ambito di applicazione della Direttiva CSDD in materia di due diligence sia stato ristretto (rispetto alla proposta inizialmente articolata dalla Commissione UE) alle sole imprese di significative dimensioni, sussiste uno stretto legame fra la Corporate Sustainability Due Diligence Directive e la Corporate Sustainability Reporting Directive: invero, un’adeguata raccolta di informazioni a fini di rendicontazione nell’ambito della proposta CSRD richiede l’istituzione di processi strettamente correlati all’identificazione degli impatti negativi in conformità con l’obbligo di due diligence predisposto dalla CSDD.

Inoltre, il panorama normativo e l’introduzione degli standard volontari ESRS VSME in materia di sostenibilità offrono anche alle PMI non quotate uno strumento flessibile per adeguarsi a queste nuove esigenze di rendicontazione senza subire eccessivi oneri burocratici e finanziari.

Il rischio di “non essere sostenibili” precluderà sempre di più l’accesso a risorse essenziali per la sopravvivenza, la crescita e la competitività di tutte le imprese, sia di grande che di piccola e media dimensione. In particolare, l’accesso ai mercati globali, al credito, alla comunità finanziaria, a premi assicurativi a condizioni agevolate, a gare e appalti sia pubblici che privati, dipenderà sempre di più anche dal profilo di sostenibilità aziendale.

Lo scenario normativo attuale mostra come le grandi sfide ambientali e sociali debbano dunque essere affrontate come questioni strategiche per le imprese e non come mera compliance, perché i nuovi piani di investimento europei hanno sempre più l’obiettivo di incrementare la sostenibilità e creare un’economia climaticamente neutra, competitiva e inclusiva.

[1] Il 10 giugno 2024 il Consiglio dei Ministri ha approvato il Decreto Legislativo per il recepimento della Direttiva (UE) 2022/2464.
[2] Per le PMI non quotate sono previsti standard volontari di rendicontazione di sostenibilità, gli standards ESRS VSME.
[3] IlSole24ore “CS3D al via: tra obblighi di compliance aziendale e profili di diritto internazionale privato” del 1 luglio 2024: https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/cs3d-via-obblighi-compliance-aziendale-e-profili-diritto-internazionale-privato-AFLJbcMC

DONAZIONE INDIRETTA DELL’IMMOBILE. NON CONFIGURABILE SE IL DONANTE NON PAGA L’INTERO. Corte di Cassazione, Sentenza n. 16329/2024

Con la recentissima Sentenza n. 16329 del 12 giugno 2024 la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di liberalità non donative, chiarendo che non può ricondursi alla fattispecie della donazione indiretta dell’immobile la donazione di denaro che, pur funzionalmente collegata all’acquisto dello stesso, sia insufficiente a coprirne l’intero prezzo. In tali casi, oggetto di collazione è il denaro corrisposto e non la corrispondente quota di valore dell’immobile.

La donazione: nozione 

Ai sensi dell’art. 769 c.c. la donazione “è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione

La donazione è connotata dalla presenza di un elemento oggettivo e di uno soggettivo: 

  • l’elemento oggettivo si caratterizza per il depauperamento del donante e per l’arricchimento del donatario; 
  • l’elemento soggettivo rappresentato dallo spirito di liberalità (animus donandi) del donante. 

In particolare, lo spirito di liberalità costituisce la causa del contratto di donazione e si identifica con lo scopo tipico e costante perseguito dal disponente, a prescindere dai motivi che possono averlo portato a porre in essere l’atto di liberalità. 

Lo spirito di liberalità può dirsi presente quando il disponente, nella consapevolezza di non esservi tenuto in virtù di un vincolo giuridico o extragiuridico, vuole arricchire il beneficiario, con conseguente depauperamento del proprio patrimonio. 

La donazione indiretta 

La donazione indiretta ricorre nell’ipotesi in cui il fine di liberalità, ossia lo scopo liberale di arricchire un’altra persona, non viene raggiunto attraverso il contratto di donazione ma attraverso diversi negozi. 

In caso di donazione indiretta, la disciplina applicabile è quella propria del negozio utilizzato e non quella della donazione. 

Ciononostante, il Legislatore ha previsto che alle donazioni indirette possano essere applicate alcune norme in materia di donazione. Nello specifico: 

– le norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa di ingratitudine e per sopravvenienza dei figli; 

– le norme relative alla collazione; 

– le norme relative all’azione di riduzione in caso di lesione della quota dei legittimari.

Il caso 

Con la Sentenza n. 16329/2024 la Suprema Corte è tornata ad affrontare la materia delle liberalità non donative collegate all’acquisto di un immobile, in un caso riguardante il pagamento, da parte del donante, di una parte soltanto del prezzo del bene.

La Corte di Cassazione seguendo la strada già tracciata da precedenti statuizioni di legittimità ha distinto l’ipotesi in cui l’immobile venga interamente acquistato con denaro del disponente ed intestazione ad altro soggetto che il disponente intende beneficiare, dall’ipotesi in cui il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene. 

Secondo la Suprema Corte, nel caso in cui l’immobile sia acquistato con denaro proprio del disponente e sia intestato ad altro soggetto che il disponente intende beneficiare, “la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene, ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario integra donazione indiretta del bene stesso e non del denaro” (ex multis, Cass., Sentenza n. 13619/2017; Cass., Sez. Un., Sentenza n. 9282/1992). Al contrario, “la donazione indiretta dell’immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una diversa modalità per attuare l’identico risultato giuridico economico dell’attribuzione liberale dell’immobile esclusivamente nell’ipotesi in cui se ne sostenga l’intero costo” (ex multis, Cass., Sentenza n. 2149/2014).

Ne consegue che, secondo quanto statuito dall’art. 737 c.c., in caso di collazione il conferimento ha ad oggetto l’immobile solo laddove l’intero costo del bene sia stato sostenuto dal donante; in caso contrario, l’imputazione riguarda solo il denaro corrisposto e non la corrispondente quota di valore dell’immobile.

Un orientamento contrario: Sentenze nn. 9194/2015 e 10759/2019

Nonostante l’orientamento più recente della Corte di Cassazione sia quello poc’anzi menzionato, è opportuno dar conto di alcuni precedenti difformi e, segnatamente, delle Sentenze nn. 9194/2015 e 10759/2019, che confutano l’argomentazione sopra esposta. 

Tali pronunce, infatti, partono dalla considerazione che la donazione indiretta si realizza anche nel caso di compravendita di un bene ad un prezzo inferiore a quello effettivo allorquando la sproporzione tra le prestazioni sia di entità significativa, ma sia anche accompagnata dalla consapevolezza, da parte dell’alienante, dell’insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto.

In tali casi, l’oggetto della donazione è rappresentato esclusivamente dalla differenza fra il valore di mercato del bene ed il prezzo effettivamente versato. Le Sentenze indicate sostengono allora che, se si accogliesse la tesi, anche recentemente ribadita, secondo cui “la donazione indiretta dell’immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene”, sarebbe inammissibile una donazione indiretta con lo schema del negotium mixtum cum donatione che si fonda proprio nell’individuazione della liberalità nello scarto consapevolmente accettato dal venditore tra prezzo dovuto e prezzo effettivamente versato.

Per questo motivo, l’orientamento contrario reputa che, laddove sia dimostrato lo specifico collegamento tra dazione di somme e loro successivo impiego, quand’anche il denaro fornito non siano in grado di coprire per l’intero il prezzo del bene, oggetto di liberalità debba essere identificato, analogamente a quanto affermato in tema di vendita mista a donazione, nella percentuale di proprietà del bene acquistato corrispondente alla quota parte di prezzo soddisfatta con la provvista fornita dal donante.

COME PROTEGGERE ED INCREMENTARE IL PATRIMONIO.<br> Convegno del 21 giugno 2024

In data 21 giugno 2024 presso il Circolo dei Lettori di Torino si è tenuto il convegno “DA IMPRENDITORE AD INVESTITORE: COME PROTEGGERE ED INCREMENTARE IL PATRIMONIO”, organizzato dallo Studio Legale Dal Piaz e da CUNIBERTI & Partners SIM S.p.a., con la partecipazione di relatori importanti, tra cui il Prof. Giovanni Cuniberti, l’Avv. Alberto Vanti, il Dott. Luca Asvisio e il Dott. Attilio Ghiglione, che hanno fornito preziosi approfondimenti su tematiche fondamentali per imprenditori, investitori e professionisti.

Prof. Giovanni Cuniberti (docente della Scuola di Management ed Economia dell’Università di Torino di Torino e A.D. di CUNIBERTI & Partners SIM S.p.a.): La visione olistica del patrimonio tramite il multi family office indipendente

Il Prof. Giovanni Cuniberti ha presentato un intervento dettagliato sulla visione olistica del patrimonio tramite il multi-family office indipendente. L’intervento ha permesso di delineare un approccio integrato alla gestione del patrimonio, che coniuga diverse competenze multidisciplinari per fornire soluzioni personalizzate alle famiglie di imprenditori.

Il Prof. Cuniberti ha spiegato che la visione olistica del patrimonio impone di considerare non solo gli asset finanziari, ma anche il capitale umano, relazionale e culturale delle famiglie. In quest’ottica, il multi family office rappresenta uno strumento versatile, in grado di offrire una gamma completa di servizi, includendo consulenza finanziaria, gestione degli investimenti, pianificazione fiscale e successoria, nonché supporto nelle decisioni strategiche aziendali.

Il multi-family office indipendente può garantire una gestione imparziale e lungimirante del patrimonio familiare, in quanto si concentra sugli obiettivi e sulle esigenze delle famiglie nel lungo termine. Il Prof. Cuniberti ha discusso l’importanza della governance familiare, proponendo modelli di gestione che coinvolgono attivamente i membri della famiglia nelle decisioni patrimoniali, evitando conflitti intergenerazionali e favorendo una visione condivisa e sostenibile del futuro familiare.

Inoltre, il Prof. Cuniberti ha analizzato i benefici di un family office indipendente rispetto a quelli legati a istituti finanziari, sottolineando come l’indipendenza permetta una maggiore personalizzazione dei servizi e di adattare le strategie di gestione patrimoniale alle esigenze specifiche di ogni operatore; ha inoltre fornito esempi pratici di come un multi family office possa gestire situazioni complesse, come il passaggio generazionale, l’ingresso di nuovi membri nel capitale aziendale e la diversificazione degli investimenti, assicurando una continuità e una crescita sostenibile del patrimonio.

Avv. Alberto Vanti (responsabile del team di diritto societario e commerciale e di Spazio Patrimoni dello Studio Legale Dal Piaz): I principali strumenti giuridici di protezione del patrimonio

L’Avv. Alberto Vanti ha illustrato i principali strumenti giuridici di protezione del patrimonio, analizzando in primo luogo i vari rischi da cui proteggere il patrimonio, tra i quali malattie, disabilità, morte, divorzi, successioni, obblighi di risarcimento, frodi, crisi societarie, liti societarie, responsabilità civile o professionale, compliance, licenziamento, crisi economiche e fiscalità elevata, approfondendo quindi i seguenti istituti.

  1. Intestazione fiduciaria. E’ uno strumento che consente il trasferimento della titolarità di beni ad un fiduciario, il quale ha il compito di amministrarli nel migliore interesse del fiduciante. L’intestazione fiduciaria offre un elevato grado di riservatezza e protezione, permettendo al fiduciante di non apparire come proprietario dei beni o titolare di quote. L’Avv. Vanti ha sottolineato come questo strumento possa essere particolarmente utile per effettuare operazioni che devono rimanere riservate e proteggere il patrimonio da rischi legati alla sfera personale e professionale.
  2. Società semplice. L’Avv. Vanti ha spiegato come la Società semplice possa essere utilizzata per gestire il patrimonio familiare, offrendo vantaggi sia in termini di gestione che di protezione legale e garantendo la gestione condivisa e partecipativa del patrimonio.
  3. Trust. E’ un negozio giuridico che consente di trasferire beni a un trustee affinché li gestisca a favore di uno o più beneficiari secondo le disposizioni del disponente. L’Avv. Vanti ha definito le figure ed i ruoli dei soggetti in vario modo coinvolti nel trust, evidenziando i benefici in termini di segregazione patrimoniale e di protezione dai creditori ed individuando i vantaggi del trust in termini di continuità aziendale.

L’Avv. Vanti ha concluso il suo intervento sottolineando l’importanza di affidarsi a professionisti esperti nella gestione del patrimonio ed evidenziando l’esistenza di strumenti giuridici in grado di ripianare il rischio di sottrazione di beni (come l’azione revocatoria).

Dott. Luca Asvisio (Presidente dell’Ordine dei Commercialisti di Torino): Il passaggio generazionale

Il Dott. Luca Asvisio ha affrontato il tema cruciale del passaggio generazionale, sottolineandone l’importanza per la continuità ed il successo a lungo termine delle imprese familiari. Il Dott. Asvisio ha posto in evidenza come un trasferimento pianificato e ben gestito possa garantire non solo la sopravvivenza dell’azienda, ma anche il suo sviluppo e l’adattamento ai cambiamenti del mercato. Il passaggio generazionale è un processo complesso che richiede una strategia chiara e l’adozione di strumenti giuridici adeguati.

Il Dott. Asvisio ha identificato diversi aspetti critici che devono essere affrontati per garantire un passaggio generazionale di successo: tra questi, l’importanza di pianificare con largo anticipo il passaggio generazionale, al fine di garantire una transizione graduale e preparare adeguatamente i successori. In tal senso, è stata sottolineata la necessità di formare adeguatamente tutti gli interessati, non solo dal punto di vista tecnico e gestionale, ma anche per quanto riguarda i valori e la cultura aziendale. Il Dott. Asvisio ha parlato dell’importanza di strutturare una governance aziendale efficace, che includa meccanismi di controllo e di bilanciamento, illustrando una serie di strumenti giuridici e fiscali che, se utilizzati in maniera funzionale, possono assicurare una transizione senza conflitti.

Inoltre, il Dott. Asvisio ha presentato casi di studio di famiglie che hanno affrontato con successo il passaggio generazionale, evidenziandone le best practices, sottolineando l’importanza di coinvolgere le nuove generazioni nelle decisioni patrimoniali ed aziendali per garantire una transizione graduale, ed enfatizzando la necessità di una consulenza professionale qualificata per affrontare tutte le problematiche che presenta il passaggio generazionale.

Dott. Attilio Ghiglione (CEO di Holding Happy Life S.r.l della famiglia Perotti, titolare di  Sanlorenzo Yacht S.p.a.): L’esperienza del single family office

Il Dott. Attilio Ghiglione ha illustrato il modello di family office adottato dalla famiglia Perotti al fine di gestire ed incrementare il patrimonio familiare, descrivendone le strategie adottate, quali: l’implementazione di una determinata governance, chiara e trasparente, la diversificazione degli investimenti e l’adozione di pratiche di risk management avanzate. L’intervento ha permesso di identificare i benefici derivanti da un approccio personalizzato e flessibile, che tenga conto delle specifiche esigenze e degli obiettivi della famiglia, assicurato da un alto livello di professionalità e di competenze.

Il Dott. Ghiglione ha inoltre discusso l’importanza della coesione familiare e della comunicazione aperta tra i membri della famiglia per garantire una gestione condivisa e partecipativa del patrimonio. Complessivamente l’intervento ha permesso di comprendere come il family office abbia supportato la famiglia Perotti nel prendere decisioni strategiche, a livello di diversificazione degli investimenti e di espansione in nuovi settori di mercato. In conclusione, il Dott. Ghiglione ha ribadito l’importanza di un approccio proattivo e di lungo termine nella gestione del patrimonio per garantirne la crescita sostenibile e la protezione efficace.

Conclusioni

Il convegno “DA IMPRENDITORE AD INVESTITORE: COME PROTEGGERE ED INCREMENTARE IL PATRIMONIO” ha offerto un prezioso momento di confronto e di approfondimento sulle migliori strategie per la protezione e l’incremento del patrimonio, grazie agli interventi di esperti di alto profilo. I molti partecipanti in presenza ed online hanno avuto conoscenza diretta e concreta degli strumenti pratici per affrontare le sfide della gestione patrimoniale. L’evento ha evidenziato l’importanza di una pianificazione attenta e multidisciplinare, capace di integrare competenze giuridiche, finanziarie e strategiche per garantire la protezione e la crescita del patrimonio nel lungo termine. L’alternarsi degli interventi è stato agevolato dagli interventi dell’Avv. Dal Piaz, costante trait d’union delle diverse tematiche e dei punti di vista professionali proposti.

Lo Studio Legale Dal Piaz organizza il convegno dal titolo “DA IMPRENDITORE AD INVESTITORE: COME PROTEGGERE ED INCREMENTARE IL PATRIMONIO”: 21 giugno 2024 (9.30 – 13.00) presso il Circolo dei Lettori di Torino, Via Bogino n. 9.

Lo Studio Legale Dal Piaz e CUNIBERTI & Partners SIM S.p.a. organizzano il convegno “DA IMPRENDITORE AD INVESTITORE: COME PROTEGGERE ED INCREMENTARE IL PATRIMONIO”, che avrà luogo, in presenza ed online, il 21 giugno 2024 (9.30 – 13.00) presso il Circolo dei Lettori di Torino, Via Giambattista Bogino n. 9.

Saranno presenti:

Avv. Francesco DAL PIAZ Moderatore

Prof. Giovanni CUNIBERTI (Ceo Cuniberti & Partners SIM S.p.a. e docente Scuola di Management ed Economia) che tratterà il tema de LA VISIONE OLISTICA DEL PATRIMONIO TRAMITE IL MULTI FAMILY OFFICE INDIPENDENTE

Avv. Alberto VANTI (Responsabile team civile e commerciale e Spazio Patrimoni dello Studio Legale Dal Piaz) che illustrerà I PRINCIPALI STRUMENTI GIURIDICI DI PROTEZIONE DEL PATRIMONIO

Dott. Luca ASVISIO (Presidente Ordine Commercialisti Torino) che analizzerà IL PASSAGGIO GENERAZIONALE

Dott. Attilio GHIGLIONE (Ceo Holding Happy Life S.r.l.: Holding Famiglia PEROTTI – Sanlorenzo Yacht S.p.a.) che parlerà di una esperienza concreta che ha sviluppato una delle maggiori famiglie imprenditoriali italiane: L’ESPERIENZA DEL SINGLE FAMILY OFFICE

 

Per informazioni ed iscrizioni: 011 4366646 – info@studiolegaledalpiaz.it; 011 0242026 – info@cunibertipartners.it

CONTRATTO DI MUTUO BANCARIO. IL REGIME “ALLA FRANCESE” DI CAPITALIZZAZIONE DEGLI INTERESSI: Sezioni Unite della Corte di Cassazione, Sentenza n. 15130/2024

Con la recentissima Sentenza n. 15130 del 29 maggio 2024 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno risolto le questioni di diritto formulate dal Tribunale di Salerno con Ordinanza del 19 luglio 2023 in tema di validità e di trasparenza del sistema di ammortamento “alla francese”. 

In particolare, il Tribunale rimettente ha disposto il rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c. ponendo alla Suprema Corte i seguenti quesiti: 

  1. “Se l’omessa indicazione del regime di capitalizzazione “composto” degli interessi e della modalità di ammortamento “alla francese” comporti la indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto e, di conseguenza, la nullità (parziale) del contratto di mutuo bancario, ai sensi degli artt. 1346[1] e 1418, comma 2, c.c.[2].
  2. “Se la maggior quota di interessi complessamente dovuti in presenza di ammortamento “alla francese” rispetto a quello “all’italiana” costituisca un prezzo ulteriore e occulto che rende il tasso d’interesse effettivo maggiore di quello nominale (TAN) e del TAEG dichiarati nel contratto, di cui il cliente dovrebbe essere informato, con conseguente nullità parziale della relativa clausola contrattuale per violazione dell’art. 117, comma 4, T.u.b. [Testo Unico Bancario, di seguito “T.U.B.”][3]

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È innanzitutto doveroso premettere che, nel mutuo, il sistema di ammortamento “alla francese” è un metodo di rimborso caratterizzato da una rata costante composta, all’inizio, da una maggiore consistenza di interessi ed una minore consistenza di capitale, mentre, successivamente, con il passare del tempo, tali quote si invertono (gli interessi decrescono ed il capitale aumenta). 

Per il piano di ammortamento alla francese “standard” si utilizza il regime di capitalizzazione composta per cui gli interessi maturati rientrano nel capitale su cui calcolare gli interessi successivi; invece, nel regime di capitalizzazione semplice gli interessi si calcolano solo sul capitale iniziale. 

Per risolvere il primo quesito pregiudiziale la Suprema Corte, richiamando precedenti giurisprudenziali in tema di determinazione del tasso di interesse del mutuo (cfr. Cass. Civ., Sentenze nn. 28824/2023 e 36026/2023), ha affermato che l’indagine sulla determinatezza dell’oggetto del contratto deve necessariamente verificare la sussistenza (o meno) dei “criteri oggettivi e insuscettibili di dare luogo a margini di incertezza” sulla base dei quali le Parti hanno determinato sia l’an che il quantum del negozio giuridico.   

Ebbene, nel caso concreto, posto che il contratto stipulato dal consumatore contiene l’espressa indicazione del numero e della composizione delle rate costanti di rimborso e la ripartizione delle quote per capitale e per interessi, “era soddisfatta la possibilità per il mutuatario di ricavare agevolmente l’importo totale del rimborso con una semplice sommatoria”

Le Sezioni Unite hanno, altresì, precisato quanto segue: 

“a) La doglianza concernente la mancata esplicitazione nel contratto del maggior costo del prestito come effetto del sistema “composto” di capitalizzazione degli interessi non evidenzia un problema di determinatezza o indeterminatezza dell’oggetto del contratto ma, in ipotesi, di eventuale mancanza di un elemento tipizzante del contratto, previsto dall’art. 117, comma 4, T.u.b. , che darebbe luogo, semmai, a nullità testuale per la mancata indicazione di un “prezzo” o costo aggiuntivo del prestito e all’applicazione del tasso sostitutivo (comma 7).

b) L’indagine sulla determinatezza o indeterminatezza dell’oggetto del contratto non va compiuta con riferimento alla convenienza del contratto e delle sue clausole che è profilo non rilevante ai fini del giudizio sulla validità del contratto con riguardo sia alla sua struttura (1325 1346 c.c.) e alla integrità del consenso negoziale (cfr., in tema di intermediazione finanziaria, Cass. n. 13446/2023, 18039/2012), sia al controllo di meritevolezza del contratto (cfr., in tema di leasing traslativo, Cass. SU n. 5657/2023). […].  

c) Il maggior carico di interessi del prestito non dipende […] da un fenomeno di produzione di “interessi su interessi”, cioè di calcolo degli interessi sul capitale incrementato di interessi né su interessi “scaduti” (propriamente anatocistici), ma dal fatto che nel piano concordato tra le parti la restituzione del capitale è ritardata per la necessità di assicurare la rata costante (calmierata nei primi anni) in equilibrio finanziario, il che comporta la debenza di più interessi corrispettivi da parte del mutuatario a favore del mutuante per il differimento del termine per la restituzione dell’equivalente del capitale ricevuto”.

In definitiva, la Suprema Corte ha escluso che la mancata indicazione nel contratto di mutuo bancario del regime “alla francese” di capitalizzazione degli interessi determini la nullità parziale del contratto di mutuo bancario per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto dello stesso

Quanto alla risoluzione della seconda questione pregiudiziale, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono partite dal seguente assunto: posto che il contratto “trasparente” è quello che “lascia intuire o prevedere il livello di rischio o di spesa del contratto, consentendo al consumatore di avere piena contezza delle condizioni della futura esecuzione […] e di essere in possesso di tutti gli elementi idonei a incidere sulla portata del suo impegno” (cfr. Cass. Civ., Sentenza n. 28824/2023, e Corte di Giustizia, 20 settembre 2018, Sentenza C-448/17), il contratto di mutuo (oggetto del giudizio di merito) rispetta le condizioni di trasparenza dettate dal Titolo VI del T.U.B. poiché l’Istituto bancario ha predisposto ed allegato al citato contratto il piano di ammortamento “alla francese”, che, quindi, era conosciuto dal cliente.

Nello specifico, l’Istituto di credito, in ossequio alle disposizioni della Banca d’Italia del 29 luglio 2009[4], ha fornito al consumatore il riepilogo puntuale delle somme dovute (a titolo di capitale ed a titolo di interessi o di entrambi) e delle scadenze previste, sicché il mutuatario poteva conoscere agevolmente l’importo totale del rimborso mediante una semplice sommatoria.

Quindi, la Suprema Corte ha risposto negativamente anche al secondo profilo in cui è articolato il rinvio pregiudiziale del Tribunale di Salerno, “dovendosi escludere che la mancata indicazione nel contratto di mutuo bancario, a tasso fisso, della modalità di ammortamento c.d. “alla francese” e del regime di capitalizzazione comporto degli interessi sia causa di nullità del contratto di mutuo per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti”.  

In conclusione, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “in tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento “alla francese” di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione “composto” degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti”.

[1] L’art. 1346 c.c. disciplina i requisiti del contratto e dispone che “L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile”.
[2] Ai sensi del comma 2 dell’art. 1418 c.c. (“Cause di nullità del contratto”): “Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicate dall’art. 1325, l’illiceità della causa, l’illiceità dei motivi nel caso indicato dall’art. 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art. 1346”.
[3] A mente del comma 4 dell’art. 117 del T.U.B.: “I contratti [bancari] indicano il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora”.
[4] Il provvedimento del 29 luglio 2009 ha ad oggetto “Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti”.

SOLIDARIETÀ E PARZIARIETÀ DELLE OBBLIGAZIONI NEL CONDOMINIO: Corte di Cassazione, Ordinanza n. 34220/2023.

La Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, con Ordinanza n. 34220 del 6 dicembre 2023 ha chiarito la differenza tra “condomini morosi” e “condomini in regola” con i pagamenti, ammettendo l’efficacia liberatoria dei pagamenti effettuati dal condomino moroso direttamente al terzo creditore.

Le obbligazioni soggettivamente complesse

Quando il rapporto obbligatorio intercorre tra una pluralità di soggetti, l’obbligazione è detta soggettivamente complessa; rientrano in tale categoria le obbligazioni solidali e le obbligazioni parziarie

Presupposti delle obbligazioni solidali sono: la pluralità di creditori (solidarietà attiva) o di debitori (solidarietà passiva), e l’unicità della prestazione (aedem res debita) e della sua causa (eadem causa obligandi). 

In caso di solidarietà attiva, l’adempimento dell’unico debitore nei confronti di uno dei creditori lo libera nei confronti di tutti. Al contrario, nella solidarietà passiva – la cui fonte può essere sia legale sia negoziale – i debitori sono tenuti all’adempimento dell’intera prestazione, ma l’esecuzione di uno libera tutti: quest’ultimo avrà poi azione di regresso nei confronti degli altri condebitori in solido e potrà ripetere quanto adempiuto in proporzione alle rispettive quote. 

Principio comune delle obbligazioni solidali è che, in via generale, le situazioni poste a vantaggio di un condebitore o di un concreditore si estendono anche agli altri.

 Il medesimo principio, salvo particolari eccezioni, è applicabile agli istituti della novazione, della remissione, della compensazione e della confusione: infatti, gli effetti estintivi dell’obbligazione solidale maturati nei confronti di uno si estendono anche agli altri (condebitori o concreditori). 

A differenza delle obbligazioni solidali, nelle obbligazioni parziarie – anch’esse sussistenti sia dal lato attivo che dal lato passivo – ciascun soggetto è portatore di un diritto o di un obbligo parziale ovvero proporzionato alla propria partecipazione al vincolo obbligatorio. 

Il caso

Con la pronuncia in esame la Suprema Corte è tornata ad occuparsi della possibilità che un condomino in regola con i pagamenti sia chiamato a pagare i debiti dei condomini morosi. 

In particolare, la Corte ha affrontato le seguenti questioni di diritto: 

i) in quale misura il singolo condomino è assoggettato all’azione esecutiva del creditore che abbia ottenuto, nei confronti dell’ente di gestione, un titolo di condanna per il saldo di un debito condominiale; 

ii) quali eccezioni il singolo condomino può opporre al creditore, in base all’art. 63 disp. att. c.p.c., con riguardo, in particolare, all’individuazione della esatta quota dell’obbligazione condominiale di sua spettanza. 

Ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.p.c., “per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea, l’amministratore senza bisogno di autorizzazione di questa, può ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione, ed è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi”(comma 1); “i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini” (comma 2). 

La tutela del creditore è sempre adeguatamente assicurata potendo egli agire sempre liberamente e senza vincoli nei confronti di tutti i condomini (abbiano essi o meno versato all’amministratore la loro quota di contributi dovuti), per l’adempimento delle relative quote delle obbligazioni condominiali rimaste insoddisfatte (quindi, complessivamente, per il suo intero credito). 

Il creditore non può, però, immediatamente agire nei confronti dei condomini che abbiano estinto la loro posizione obbligatoria (pagando direttamente a lui o tramite il pagamento dell’amministratore), contro i quali potrà esperire l’azione sussidiaria di garanzia di cui all’art. 63 disp. att. c.c. previa obbligatoria escussione dei condomini insolventi

Infatti, la tutela dei “condomini diligenti” secondo la pronuncia in esame “è altrettanto adeguatamente assicurata dalla possibilità di pagare direttamente al creditore la quota dell’obbligazione condominiale e di ottenere, altresì, l’imputazione a tale titolo di tutti i pagamenti effettuati dall’amministratore con la provvista da loro versata, mediante la comunicazione di cui all’art. 63, comma 1, disp. att. cc, in modo da rimanere esposti a eventuale responsabilità per importi superiori a quelli effettivamente dovuti solo in virtù dell’obbligo sussidiario di garanzia introdotto dal secondo comma di detta disposizione, che però è condizionato alla previa vana escussione dei condòmini morosi”.

Inoltre, la Corte di Cassazione ha chiarito che l’onere di preventiva escussione dei condomini morosi riguarda l’intero importo della loro morosità, respingendo la tesi che la responsabilità dovrebbe limitarsi alla quota millesimale in relazione all’importo residuo dell’obbligazione originaria; sul punto la Suprema Corte ha stabilito quanto segue: “L’onere di preventiva escussione dei condòmini “morosi”, gravante, ai sensi dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., sul creditore solo parzialmente soddisfatto e munito di titolo, non ha ad oggetto la sola somma corrispondente alla quota millesimale del condòmino moroso sull’importo residuo dell’obbligazione del titolo esecutivo, ma l’intero importo residuo della suddetta “morosità”, cioè l’intera originaria quota dell’obbligazione condominiale imputabile al singolo condòmino, detratto quanto eventualmente già pagato al creditore dall’amministratore, in nome e per conto di detto condòmino, in virtù dei versamenti dallo stesso effettuati nelle casse condominiali, secondo l’imputazione comunicata ai sensi dell’art. 63, comma 1, disp. att. c.c., e/o quanto versato direttamente dal singolo condòmino al terzo; 

”la quota del debito condominiale gravante sul singolo condomino contro il quale il creditore abbia agito in via esecutiva in base all’art. 63 disp. att. c.p.c., in caso di contestazioni espresse in sede di opposizione all’esecuzione – e fermo restando che spetta al condòmino intimato l’onere di allegare e provare che detta quota sia diversa da quella indicata dal creditore – va determinata: a) in base alla delibera condominiale di riparto della spesa; b) se una delibera manchi o sia venuta meno, all’esito di una valutazione sommaria del giudice dell’opposizione all’esecuzione, ai soli fini dell’azione esecutiva in corso, tenendo conto delle indicazioni dell’amministratore, degli elementi certi disponibili ed eventualmente, in mancanza, facendo ricorso alla tabella millesimale generale; in tali casi restano tuttavia salve le eventuali successive appropriate azioni di rivalsa interna tra condòmini”.

IMMOBILI PRIVI DI AGIBILITA’. EFFETTI SULLA COMPRAVENDITA: Corte di Cassazione, Ordinanza n. 8749/2024.

Con la recentissima Ordinanza n. 8749 del 3 aprile 2024 la Corte di Cassazione chiarisce le conseguenze della vendita dell’immobile privo del certificato di agibilità. 

*

Nel caso di specie, gli acquirenti hanno ottenuto, in primo grado, la risoluzione del contratto preliminare e la condanna della Società di costruzione alla restituzione della caparra confirmatoria “per grave inadempimento della promittente venditrice nella consegna di un valido certificato di abitabilità, in difetto di alcuna prova che l’immobile promesso in vendita presentasse tutte le caratteristiche necessarie per l’uso proprio […]”

La Società promittente venditrice ha impugnato la pronuncia sfavorevole asserendo i) la mancata previsione di un termine essenziale per la consegna del certificato di agibilità (la cui assenza era, comunque, circostanza nota all’acquirente), nonché ii) l’erronea interpretazione delle clausole contrattuali con cui le parti hanno subordinato la risoluzione del contratto (solo) all’esito negativo del giudizio amministrativo promosso avverso il rigetto dell’istanza di condono (tale circostanza non si era tuttavia verificata, ma, anzi, il TAR competente aveva annullato il provvedimento amministrativo consentendo, di fatto, l’instaurazione di una nuova fase istruttoria). 

A seguito dell’accoglimento dell’appello, i promittenti acquirenti hanno quindi promosso ricorso per cassazione. 

La decisione

Con l’Ordinanza in esame la Suprema Corte è tornata ad affrontare le conseguenze dell’abuso edilizio, e, in particolare, i presupposti dell’azione di risoluzione del contratto preliminare di compravendita dell’immobile per inadempimento della promissaria alienante. 

Nella fattispecie, la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la pronuncia di secondo grado poiché la Corte d’Appello “ha argomentato il rigetto della domanda di scioglimento del contratto preliminare per inadempimento grave imputabile alla promittente alienante su un artificioso automatismo tra carenza del presupposto affinché potesse operare la condizione risolutiva [esito negativo del giudizio amministrativo nelle more instaurato dalla Società di costruzioni] e difetto dei requisiti per ottenere la pronuncia costitutiva di risoluzione giudiziale ex art. 1453 c.c.

Posto che la Società promittente venditrice non era in grado di ottenere (e, quindi, consegnare) il certificato di idoneità abitativa neppure entro la data fissata per la stipulazione del contratto definitivo, la Suprema Corte, nell’interpretazione della volontà delle parti, ha qualificato l’assenza del provvedimento amministrativo  come la mancata verificazione di un evento futuro ed incerto, che, come noto, integra, ai sensi dell’art. 1353 c.c., una condizione risolutiva negativa che, di fatto, alla sua (mancata) verificazione, priva il contratto inter partes di effetti ab origine.  

Tra l’altro, la Corte d’Appello non aveva neppure valutato “l’incidenza qualitativa e subiettiva” (ai sensi dell’art. 1455 c.c. che disciplina l’“Importanza dell’inadempimento”) degli inadempimenti contrattuali della Società venditrice puntualmente dedotti in giudizio (ossia la carenza dei requisiti per ottenere la sanatoria del mutamento di destinazione d’uso da servizi comuni a superficie abitativa). 

Ciò premesso, la Suprema Corte ha ribadito il seguente principio di diritto: “[…] nei contratti con prestazioni corrispettive, ove sottoposti a condizione risolutivala rilevanza del comportamento dei contraenti con riguardo all’inadempimento delle prestazioni a carico di ciascuno di essi e al conseguente diritto della parte adempiente ad ottenere in giudizio la risoluzione del contratto medesimo, resta subordinata al mancato verificarsi dell’evento condizionante […]” (ex multis, Cass. Civ., Sentenza n. 25061/2018).

Con specifico riferimento alla compravendita di immobili destinati ad abitazione, poi, nell’Ordinanza in oggetto si dà atto di due distinte ipotesi che, nella realtà, possono verificarsi. 

I) Qualora l’immobile presenti insanabili violazioni di disposizioni urbanistiche, […], non essendo il cespite oggettivamente in grado di soddisfare le esigenze concrete di sua utilizzazione, diretta o indiretta, ad opera del compratore, si realizza un inadempimento qualificato che può dar luogo alla risoluzione del contratto, siccome conseguente alla vendita di alium pro alio datum

Per l’effetto, in tale ipotesi, sono integrati gli estremi di un inadempimento qualificato di per sé idoneo alla risoluzione del contratto: pertanto, è intrinseca e già provata la gravità dell’inadempimento in relazione alle concrete esigenze di utilizzazione (diretta o indiretta) dell’immobile da parte del promissario acquirente  

II) Al contrario, invece, qualora manchi la documentazione amministrativa, ma siano presenti, in concreto, i requisiti previsti dalla legge per l’agibilità dell’immobile (che potrà, quindi, essere ottenuta), “non si può attivare il rimedio della risoluzione, presupponendo il ricorso a detto rimedio la verifica, sul piano oggettivo e subiettivo, dell’importanza dell’inadempimento ex art. 1455 c.c.

In definitiva, la Corte ha rinviato la causa alla Corte d’Appello competente, in diversa composizione, affinché effettui un’indagine, in base al quadro probatorio offerto, in merito alla sanabilità o meno delle difformità urbanistiche riscontrate e provate in giudizio.

IL PHISHING E LA RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE DELLE BANCHE: Corte di Cassazione, Sentenza n. 3780/2024

Con la recentissima Sentenza n. 3780 del 12 febbraio 2024 la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di responsabilità degli istituti di credito nel caso di operazioni fraudolente compiute mediante l’acquisizione, da parte del truffatore, delle credenziali di accesso al sistema di home banking di un cliente di una banca. 

Il caso di specie deciso dalla Corte riguarda un episodio di c.d. phishing, cioè di acquisizione dei dati di accesso tramite l’inconsapevole collaborazione del cliente, il quale aveva aperto un link, apparentemente riferibile alla sua banca, pervenuto al suo indirizzo di posta elettronica, e aveva quindi inserito le proprie credenziali. 

La responsabilità contrattuale

Nella fattispecie in esame viene in rilievo il rapporto contrattuale di conto corrente che lega banca e cliente, nel quale, con riferimento alle obbligazioni relative alla gestione in sicurezza del conto, il cliente è il creditore e la banca è il debitore. 

Il debitore – recita l’art. 1218 c.c.- che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile

Alla luce di tale disposizione emerge che se l’inadempimento:

  • è derivato da impossibilità della prestazione,
  • l’impossibilità non sia dipesa da una causa imputabile al debitore,

 il debitore va esente da responsabilità. 

Conseguentemente, l’obbligazione si estingue (art. 1256 c.c.) e il debitore non è più tenuto ad adempiere. 

In caso contrario, il debitore è ritenuto responsabile dell’inadempimento (c.d. responsabilità contrattuale in contrapposizione alla responsabilità extracontrattuale derivante da fatto illecito) e deve risarcire al creditore tutti i danni che ne sono derivati. 

La responsabilità contrattuale, pertanto, identifica la responsabilità per inadempimento dell’obbligazione, qualunque ne sia la fonte. 

Circa la natura di tale responsabilità, in dottrina si sono diffuse due distinte tesi contrapposte: una oggettiva (che valorizza il fatto oggettivo dell’inadempimento) ed una soggettiva (ove è data più attenzione all’aspetto della colpa); nel tentativo di superare tale dicotomia, e valorizzando il principio di buona fede e correttezza, altra tesi più recente considera esente da responsabilità il debitore cui è richiesto un comportamento inesigibile.

Contro l’inadempimento l’ordinamento prevede vari rimedi, di tipo sanzionatorio, conservativo o risolutivo, alcuni dei quali a carattere generale, altri a carattere speciale, a seconda che siano applicabili a tutte le figure contrattuali o ai soli tipi per i quali sono previsti. 

Tra i rimedi carattere generale si distinguono: l’azione di esatto adempimento (di tipo conservativo), l’azione di risoluzione (di tipo risolutivo) e l’azione risarcitoria (di tipo sanzionatorio); quest’ultima, secondo l’impostazione prevalente, non è sussidiaria alle prime due, potendo essere esperita anche autonomamente (cfr. art. 1453 c.c.). 

Principio fondamentale in tema di responsabilità contrattuale attiene alla ripartizione dell’onere della prova: in capo al creditore è previsto un mero onere di allegazione dell’inadempimento, mentre incombe sul debitore l’onere di dimostrare di aver esattamente eseguito la prestazione dovuta (cfr. Cass., Sez. Unite., 30 ottobre 2001 n. 13533, e di recente Cass. 27 febbraio 2023 n. 5853). 

In caso di phishing: la Sentenza n. 3780/2024  

Con la Sentenza n. 3780/2024 la Suprema Corte sembra mutare il suo precedente indirizzo su due fronti: i) quello della ripartizione dell’onere della prova e ii) quello della rilevanza della condotta del cliente. 

La Corte ha, in primo luogo, sancito che “la diligenza della banca va a coprire operazioni che devono essere ricondotte nella sua sfera di controllo tecnico, sulla base anche di una valutazione di prevedibilità ed evitabilità tale che la condotta, per esonerare il debitore, la cui responsabilità contrattuale è presunta, deve porsi al di là delle possibilità esigibili della sua sfera di controllo, concludendo “la responsabilità della banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, con particolare verifica della loro riconducibilità alla volontà del cliente mediante il controllo dell’utilizzazione illecita dei relativi codici da parte di terzi, va esclusa se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente configurabile, ad esempio, nel caso di protratta attesa prima di comunicare l’uso non autorizzato dello strumento di pagamento ma il riparto degli oneri probatori posto a carico delle parti segue il regime della responsabilità contrattuale”. 

Secondo l’orientamento consolidato della Suprema Corte, infatti, l’istituto di credito deve adottare tutte le misure idonee a garantire la sicurezza del servizio in quanto la diligenza ad esso richiesta (art. 1176, comma secondo, c.c.) ha natura tecnica e “deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento ed assumendo quindi come parametro la figura dell’accorto banchiere” (v. Cass. 2950 del 03.02.2017). 

Applicando i suddetti principi con riguardo al profilo probatorio ne deriva che, mentre il cliente è tenuto soltanto a provare la fonte del proprio diritto, cioè il contratto di conto corrente, ed il termine di scadenza, il debitore, cioè la banca, deve provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, sicché non può omettere la verifica dell’adozione delle misure atte a garantire la sicurezza del servizio. “Ne consegue che, essendo la possibilità della sottrazione dei codici al correntista attraverso tecniche fraudolente una eventualità rientrante nel rischio d’impresa, la banca per liberarsi dalla propria responsabilità, deve dimostrare la sopravvenienza di eventi che si collochino al di là dello sforzo diligente richiesto al debitore”.

La Suprema Corte ha infatti ritenuto che la banca nella fattispecie avrebbe dovuto opportunamente provare “di aver adottato soluzioni idonee a prevenire o ridurre l’uso fraudolento dei sistemi elettronici di pagamento, quali ad esempio l’invito al titolare della carta di appositi sms allert di conferma di ogni singola operazione, sulla base di un principio di buona fede nell’esecuzione del contratto.

In assenza di tale prova è imputabile alla banca il rischio che terzi accedano ai profili dei clienti con condotte fraudolente.

In definitiva, la Corte ha affermato che, in assenza di prove concrete, fornite da parte dell’istituto di credito, di aver adottato tutte le misure necessarie alla prevenzione delle frodi, è corretto attribuire all’Istituto di credito medesimo il rischio professionale legato alla possibilità che terzi accedano fraudolentemente ai profili home banking dei clienti.

[1]Ai sensi dell’art. 216 c.p.c.: “La parte che intende valersi della scrittura disconosciuta deve chiederne la verificazione, proponendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire di comparazione. […]”.

I PRESUPPOSTI DELLA VERIFICAZIONE.<br> Lo Studio Legale DAL PIAZ nell’importante pronuncia del Tribunale di Alessandria, Sezione Civile, n. 101/2024

La mancata produzione in giudizio dell’originale del documento disconosciuto da parte del soggetto che ha promosso la verificazione implica la rinuncia all’istanza medesima per assenza dei presupposti.

Il caso

Nella fattispecie in esame i convenuti, assistiti dallo Studio Legale DAL PIAZ, hanno eccepito in giudizio l’inutilizzabilità assoluta della scrittura privata prodotta ex adverso poiché copia fotostatica, quindi di per sé inidonea a fondare il procedimento di verificazione ex art. 216 c.p.c..

Il giudizio era stato promosso per ottenere l’accertamento dell’avvenuta rinuncia da parte dell’avente diritto (cliente dello Studio) della quota di usufrutto di sua spettanza sulla metà di un importante compendio immobiliare, a seguito della sottoscrizione di una presunta scrittura privata risalente nel tempo ed avente ad oggetto proprio la pretesa rinuncia.

A seguito del disconoscimento delle sottoscrizioni (ex art. 214 c.p.c.) da parte dei convenuti, l’attrice ha promosso istanza di verificazione[1].

Quindi, il Giudice ha disposto la CTU grafologica ordinando alla parte attrice (che intende valersi dell’efficacia probatoria della scrittura privata) di provvedere al deposito in cancelleria dell’originale del documento.

Nel corso delle operazioni peritali, però, il Consulente Tecnico di Parte convenuta (CTP) ha rilevato che il documento prodotto non era l’originale ma una semplice fotocopia, per quanto ben fatta, prodotta da una stampante digitale.

Stante la mancata produzione dell’originale della scrittura privata avente ad oggetto la rinuncia al diritto di usufrutto, i convenuti hanno eccepito l’insussistenza dei presupposti per portare a termine la verificazione, e la connessa implicita rinuncia all’istanza.

 L’orientamento giurisprudenziale

La Suprema Corte ha affermato che il Giudice non può attribuire alcuna rilevanza probatoria al documento disconosciuto “a meno che la parte, che l’abbia prodotto, intenda avvalersene, chiedendone la verificazione giudiziale […]” (Cass. Civ., Sentenza n. 8161/2023).

Il presupposto della verificazione è quindi la produzione in giudizio dell’originale del documento disconosciuto.

Infatti, posto che il disconoscimento implica anche la contestazione dell’esistenza dell’originale (Cass. Civ., Sentenza n. 9202/2004) “la sua acquisizione [l’acquisizione dell’originale] agli atti del giudizio consente che la perizia grafica si svolga su tale documento e non sulla copia, onde assicurare la massima affidabilità dell’indagine devoluta all’ausiliario e, con ciò, rispondere ad un’esigenza concorrente, non soltanto delle parti, ma anche dello stesso ordinamento giuridico” (testualmente, Cass. Civ., Sentenza n. 35167/2021; ex multis, Cass. Civ., Sentenza n. 27402/2021).

La giurisprudenza è concorde nel ritenere che, in assenza del documento originale da sottoporre al procedimento di verificazione, “alla parte […] rimane la sola possibilità di dare prova del suo contenuto – inutilizzabile a fini istruttori in ragione dell’intervenuta contestazione e della mancata sottoposizione a verificazione – con i mezzi ordinari, nei limiti della loro ammissibilità, precisandosi, a tal proposito, che non può fa ricorso alla prova testimoniale o a quella per presunzioni per dimostrare l’esistenza, il contenuto e la sottoscrizione del documento medesimo […]” (testualmente, Cass. Civ., Sentenza n. 24306/2017; ex multis, Cass. Civ., Sentenza n. 7267/2014, e Cass. Civ., Sentenza n. 33769/2019).

La Sentenza n. 101/2024 del Tribunale di Alessandria

Nel giudizio in esame, stanti i) il mancato reperimento dell’originale della scrittura privata avente ad oggetto la rinuncia al diritto di usufrutto, e ii) l’assenza di argomenti probatori a sostegno della presunta sottoscrizione ad opera dei convenuti, il Tribunale di Alessandria ha giudicato la domanda attorea inammissibile.

Invero, il Giudice, uniformandosi ai principi di diritto esposti in atti, ha giustamente stabilito che “L’assenza del documento in originale ha consentito al consulente incaricato di presentare conclusioni in termini di probabilità e non di certezza”, e, quindi, ha accertato che non è possibile provare che le firme riconducibili ai convenuti siano state effettivamente apposte sul documento prodotto ex adverso.

In definitiva, posto che la scrittura privata – disconosciuta e non verificata – costituiva l’unico ed esclusivo “titolo” su cui si fondava la domanda giudiziale attorea, il Giudice ha statuito la soccombenza della parte attrice.

[1]Ai sensi dell’art. 216 c.p.c.: “La parte che intende valersi della scrittura disconosciuta deve chiederne la verificazione, proponendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire di comparazione. […]”.

I PATTI SUCCESSORI.<br> LA DISTIZIONE TRA NEGOZI MORTIS CAUSA E NEGOZI CON EFFETTI POST MORTEM: Corte di Cassazione, Sentenza n. 34858/2023.

Con la recentissima Sentenza n. 34858 del 13 dicembre 2023 la Corte di Cassazione fornisce un importante chiarimento sulla legittimità delle donazioni (di quote sociali) effettuate da un soggetto che versa in stato di grave malattia.

Il divieto di patti successori

L’articolo 458 c.c. prevede espressamente la nullità di “ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione” o “dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinuncia ai medesimi”.

La finalità di tale divieto è quella di conservare per chiunque la libertà di disporre dei propri beni fino al termine della vita.

Infatti, il nostro ordinamento dispone che l’eredità (il complesso dei rapporti giuridici – attivi e passivi – trasmissibili) si devolve solo per legge o per testamento, e, quindi, è illegittima qualsivoglia negozialità mortis causa.

In particolare, il Codice Civile vieta esplicitamente varie tipologie di patti successori, come di seguito illustrato.

  1. Patti successori istitutivi: accordi con cui un soggetto conviene con un altro di nominarlo erede, o di effettuare una determinata disposizione testamentaria a suo vantaggio. Al de cuius, quindi, sarebbe sottratta la libertà di disporre che la legge riconosce ad ogni persona fino al momento della morte.

  2. Patti successori dispositivi: patti con cui un soggetto, che ritiene di avere diritti su una successione non ancora aperta, ne dispone in favore di terzi.

  3. Patti rinunciativi: convenzioni con cui un soggetto, presunto futuro erede in una successione non ancora aperta, rinuncia all’eredità.

Quanto alle categorie sub 2 e 3, deve ritenersi che il Legislatore abbia voluto impedire che un soggetto possa disporre con leggerezza di beni che non gli appartengono ancora e di cui, anzi, l’acquisto non può essere sicuro (ex multis, Cass. Civ., Sentenza n. 14110/ 2021).

Il caso

Con la Sentenza in esame la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di patti successori, affrontando, nello specifico, il caso di una donazione di quote sociali sottoposta a condizione di premorienza del donante affetto da una grave malattia in stato terminale.

In particolare, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di tale tipologia di donazione perché la condizione sospensiva (se il donante morirà prima del donatario) retroagisce al momento della stipulazione della donazione stessa e, dunque, l’attribuzione patrimoniale dipende da un atto inter vivos e non mortis causa (come nel caso dei patti successori vietati).

Infatti, posto che la nullità dei patti successori mira a salvaguardare il principio – di ordine pubblico – secondo cui la successione mortis causa può essere disciplinata, oltre che dalla legge, solo dal testamento […] e a tutelare la libertà testamentaria fino alla morte del disponente. In considerazione della ratio del divieto sono – invece – sottratti all’ambito applicativo della norma i negozi in cui l’evento morte non è causa dell’attribuzione, ma viene ad incidere esclusivamente sull’efficacia dell’atto, il cui scopo non è di regolare la futura successione”.

Quindi, Il focus dell’esame volto a stabilire la legittimità o meno dell’accordo è posto sul momento in cui esso produce (alcuni) effetti.

Infatti, secondo un autorevole orientamento, nonostante sia vero che nel negozio mortis causa (vietato) ed in quello con effetti post mortem (ritenuto legittimo a determinate condizioni) gli effetti sono subordinati alla morte del disponente, il “negozio mortis causa investe rapporti e situazioni che si formano in via originaria con la morte del soggetto o che dall’evento morte traggono una loro autonoma qualificazione, mentre il negozio post mortem valido è destinato a regolare una situazione preesistente, sia pure subordinandone gli effetti alla morte di una delle parti. Nei primi tale evento incide sia sull’oggetto che sulla posizione del beneficiario, nel senso che la disposizione mortis causa interessa non il bene come si trova al momento dell’atto, ma come esso figura nel patrimonio del disponente al momento della morte (cd. quod superest) e nel quale il beneficiario è considerato tale in quanto esistente al momento in cui l’atto acquisterà definitiva efficacia. In carenza di tali condizioni il negozio integra un atto inter vivos ed è in genere valido, salvo che specifiche clausole o condizioni contrattuali conservino in capo al disponente il potere di farne venir meno gli effetti e il carattere vincolante. In definitiva, l’atto mortis causa è diretto a regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte, senza produrre alcun effetto, nemmeno prodromico o preliminare. L’evento della morte riveste un ruolo diverso nell’atto post mortem, perché qui l’attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte” (Cass. Civ., Sez. Unite, Sentenza n. 18831/2019, e Cass. Civ., Sentenza n. 18198/2020).

Su tali premesse la giurisprudenza prevalente ha da tempo riconosciuto la piena validità, sia pure in presenza di determinate condizioni, della donazione fatta sotto la condizione sospensiva di premorienza del donante (cd. clausola si premoriar).

Invero, tale previsione produce effetti preliminari immediati in vita del donante, investe un singolo bene inteso come entità separata dal resto del patrimonio, e, quindi, l’attribuzione patrimoniale conseguente è solo differita alla morte, avendo il donatario facoltà di compiere atti conservativi e finanche di disporre del bene oggetto della donazione.

Invece, è nulla – per violazione dell’art. 485 c.c. – la donazione mortis causa, in cui la morte del donante è la causa dell’attribuzione patrimoniale (allorquando in previsione della morte un soggetto dona ad un altro soggetto).

Dunque, il contrasto della donazione con il divieto di patti successori dipende dalla persistenza o meno di un residuo potere dispositivo in capo al donante, e non, invece, alla maggior o minore probabilità del verificarsi dell’evento morte condizionante.

Infatti, la premorienza del donante è, per sua natura, evenienza incerta anche se il donante versa in condizioni di malattia irreversibili (come nel caso specifico oggetto della Sentenza in esame), nè è prevedibile la durata della vita residua, conservando utilità pratica al fine di valutare la legittimità della donazione la connotazione di irrevocabilità della disposizione.

In definitiva, la Suprema Corte ha confermato che le donazioni sotto condizione sospensiva non violano il divieto di patti successori, purché non siano finalizzate a regolare la futura successione e non privino il donante dello “jus poenitendi”.

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